Raggiunto l’accordo sulla direttiva sul salario minimo, presentata dalla Commissione europea verso la fine del 2020, il testo dovrà ora essere approvato in via definitiva dal Parlamento e dal Consiglio europeo. Con l’inflazione alle stelle – a maggio 2022 vedeva un aumento del 6,9% rispetto allo stesso periodo del 2021, il valore più alto dal 1986 – e nel pieno di una fase recessiva, i toni sono accesi più che mai, mentre si confondono le acque del dibattito con argomenti tendenziosi. È importantissimo quindi fare chiarezza e prendere una decisa posizione sul tema, inquadrando le complessità del problema senza cadere in falsi distinguo.

Il salario minimo garantito è uno strumento utile e importante in un momento di grande difficoltà come quello che stanno attraversando la nostra economia e il mondo del lavoro. Nonostante questo, nel nostro paese continuiamo ad affrontare l’argomento come se si trattasse di un concetto avanguardistico. In effetti, non è così. Basta guardare agli altri paesi europei. L’Italia è tra i soli sei paesi a non avere ancora una legge in materia. Ad ogni modo, il dibattito è importante anche per quegli stati membri che già hanno avuto a che fare con il tema. La forbice che separa i diversi salari, infatti, è molto ampia. Si va dai 2256,95 euro del Lussemburgo ai 332,34 della Bulgaria, passando per i 1621 euro della Germania, i 1605,12 della Francia, i 1125,83 della Spagna, tra gli altri. Sotto l’ordine del migliaio di euro si collocano Portogallo, Malta, Grecia, Lituania, Polonia, Estonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Croazia, Ungheria, Romania, Lettonia e, appunto, Bulgaria. Se però i paesi dell’Europa orientale sono quelli con i salari minimi più bassi in termini assoluti, sono anche quelli che hanno registrato il maggiore aumento percentuale. Per esempio in Romania, secondo i dati Eurostat, il valore del salario minimo è aumentato dell’11,1%. In ogni caso, gli importi sono aumentati in generale. In Italia, invece, non solo non esiste un salario minimo, ma si registra anche un trend inverso a quello europeo rispetto alle variazioni dei salari medi in senso lato. Dal 1990 al 2020, come attestato dai dati Ocse, l’Italia è l’unico paese europeo ad aver registrato una decrescita (-2,9%) dei salari: un dato che dà da pensare, soprattutto se raffrontato al +6,2% della Spagna, al +33,7% della Germania, al +31,1% della Francia, al +30,5% della Grecia.

Nel frattempo, non abbiamo mai avuto un problema di precariato di così ampia portata dal 1977, che d’altronde è il primo anno per cui abbiamo dei dati su questo indicatore. Secondo l’Istat, i lavoratori precari sono oggi 3,16 milioni. Questo dato va letto in un quadro che vede il dilagare del cosiddetto “lavoro povero”, che poi è al cuore della questione del salario minimo. Ancora oggi, esistono schiere di persone che pur lavorando non superano la soglia di povertà. Com’è possibile che nemmeno il lavoro permetta alle persone di vivere con dignità? Il dibattito sul salario minimo in Italia insiste tra le altre cose sui contratti collettivi nazionali, a cui si rimanda per una regolamentazione del mercato del lavoro. Non a caso, anche negli altri paesi dell’Europa a 27 in cui manca una legge in proposito – Finlandia, Svezia, Danimarca, Austria e Cipro – la contrattazione collettiva è lo strumento utilizzato per disciplinare i salari. Tuttavia, la contrapposizione tra contrattazione collettiva e norme di legge è speciosa. È chiaro che per un sindacato la contrattazione resta la via maestra per la tutela dei salari e del valore del lavoro, ma dobbiamo confrontarci con una realtà: i contratti non vengono rinnovati e, in molte realtà, non sono applicati in prima battuta.

In un contesto di precarietà così elevato e in assenza della tutela offerta da un aumento dei salari proporzionato al costo della vita, si va a intaccare l’equilibrio del mercato del lavoro, per cui i lavoratori sono costretti ad accettare condizioni improponibili pur di guadagnare qualcosa. Il salario minimo andrebbe a correggere eventuali distorsioni o a compensare contratti in cui la soglia è posta troppo in basso. Per esempio, il contratto collettivo nazionale dei cosiddetti servizi fiduciari stabilisce un minimo salariale di soli 4,60 euro l’ora e non viene rinnovato dal 2015. Si tratta di una somma nettamente inferiore alla soglia di povertà assoluta, calcolata in base al valore a prezzi correnti di un paniere di beni e servizi considerati essenziali, oltre che in base all’età e al numero dei componenti del nucleo e alla residenza. Se per esempio prendessimo un individuo solo, tra i 18 e i 59 anni, che viva in un’area metropolitana del centro Italia, già avremmo un reddito inferiore di circa un quarto al minimo che gli sarebbe necessario per vivere dignitosamente.

L’articolo 36 della Costituzione recita: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Come avviene in molti paesi dell’Unione europea, a partire dalla Germania, è quindi fondamentale, a garanzia di quanto prevede la nostra stessa Costituzione, introdurre una soglia minima inviolabile dai datori di lavoro.

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