Ero sveglio quella notte. Stavo ancora lavorando quel 20 maggio. Non era insolito che mi attardassi nella veglia quando ero di dieci anni più giovane. Non ricordo se allo scoccare delle 4:03 udii prima il frastuono assordante o vidi la stanza tremare. Ricordo bottiglie che cadevano, vetri per terra. La ricerca di una torcia e un pensiero: aprire la porta per vedere se c’era ancora la scala.

Poi la strada verso la redazione. La Ferrara medievale era crollata ai piedi del Ventunesimo secolo. Le guglie che gli Estensi vollero per decorare palazzi, parchi e vie schiacciavano auto in sosta o si disperdevano in macerie sui marciapiedi. I cornicioni ora erano calcinacci, in un orrendo mondo capovolto.

E strade e piazze erano piene di gente. Un esercito armato di coperte e pantofole in cerca di una guida.

Poi le prime immagini. Erano le fotografie che sarebbero diventate il simbolo del terremoto dell’Emilia nel Ferrarese. La torretta del Castello Estense sembrava divorata da un mostro da bestiario. Le pareti del municipio di Sant’Agostino erano occhi sbarrati nel vuoto. La chiesa di Mirabello un cratere creato da un beffardo architetto che decise di risparmiare solo la facciata.

Ma non caddero solo monumenti e chiese. Caddero anche uomini. Uomini che morirono perché stavano lavorando. Tarik Naouch aveva 29 anni. Una trave dello stabilimento Ursa di Bondeno lo seppellì. I capannoni della Ceramica Sant’Agostino si afflosciarono come un sudario. Un sudario che coprì i corpi di Leonardo Ansaloni, 51 anni, e Nicola Cavicchi, 35 anni. Alla Tecopress di Dosso timbrò il suo ultimo cartellino Gerardo Cesaro, 54 anni.

Chiamai un amico che lavorava nello stesso stabilimento per dargli la notizia. La prima reazione fu il sollievo di non aver scelto quel turno. Nelle catastrofi la solidarietà è spesso serva distratta. “Anonimi eroi del lavoro” li definì l’allora segretario della Cisl Raffaele Bonanni, giunto a Ferrara per i funerali di una delle vittime.

E in mezzo ai diecimila sfollati e alle decine di campi di accoglienza, agli oltre duemila posti di lavoro cancellati dai crolli delle strutture industriali, ci furono anche anonime eroine della vita domestica.

Come Nevina Balboni, 103 anni, anziana invalida rimasta uccisa dai calcinacci durante il crollo della sua cascina a Sant’Agostino. Come Anna Abeti, 86 anni, di Vigarano Mainarda, tanto spaventata da avere un ictus e morire dopo il ricovero all’ospedale.

Come Sandra Gherardi, 46 anni, vittima della seconda grande scossa, quella del 29 maggio. Un pezzo di cornicione la raggiunse in strada. L’ultimo respiro lo consumò in ospedale, una settimana dopo.

Ci fu anche chi morì prima ancora di venire alla luce. Martina Aldi, 38 anni, di Scortichino di Bondeno, era incinta di pochi mesi. La scossa del 29 maggio la terrorizzò al punto da farle perdere conoscenza. Passò undici giorni in coma all’ospedale di Baggiovara. Poi si spense, insieme a suo figlio. “Il terremoto non ci ha risparmiato, ci ha separati per sempre – scrisse in una lettera il compagno Alessandro – Saprai prenderti cura della nostra anima che ancor prima di aprire gli occhi li ha chiusi all’improvviso”.

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