Uno spettro si aggira per la legislazione italiana: lo spettro dell’economia circolare. In quanto tale è ubiquo ma impalpabile. Tanti lo evocano, alcuni lo invocano, altri lo temono. Per uscire dalla metafora spettrale, oltre le declamazioni da parata, nella normativa di questo paese l’economia circolare è ancora, troppo spesso, una petizione di principio. Come dimostrano alcune vicende in ambito di rifiuti, che in questa materia è centrale.

Nella normativa europea esiste una espressa gerarchia dei rifiuti, funzionale proprio alla promozione del nuovo modello economico che dovrebbe sostituire quello cosiddetto lineare del “produci, consuma, getta”. Nella direttiva quadro che regolamenta questo campo, infatti, si sancisce quale “ordine di priorità della normativa e della politica in materia di prevenzione e gestione dei rifiuti: a) prevenzione; b) preparazione per il riutilizzo; c) riciclaggio; d) recupero di altro tipo, per esempio il recupero di energia; e) smaltimento”.

Com’è evidente, il recupero di energia è al quarto posto su cinque. L’idea di un termovalorizzatore per risolvere un’emergenza rifiuti resta, pertanto, di dubbia compatibilità, per così dire, con quella gerarchia; per quanto enorme, perenne e nociva in sé possa essere quell’emergenza. Nessun approccio ideologico, ma che quella tra la combustione di rifiuti e l’economia circolare sia una relazione complicata è facilmente intuibile da chiunque abbia appena qualche rudimento su questo modello economico. In ogni caso, non mancano evidenze in tal senso a livello di normazione unionale, oltre alla già citata direttiva quadro sui rifiuti.

Parallelamente a questa storia, ve n’è un’altra, di segno uguale e contrario. Riguarda sempre la gerarchia dei rifiuti, stavolta la lettera b): preparazione per il riutilizzo, definita dalla legge come l’insieme delle “operazioni di controllo, pulizia, smontaggio e riparazione attraverso cui prodotti o componenti di prodotti diventati rifiuti sono preparati in modo da poter essere reimpiegati senza altro pretrattamento”. Nella legge di bilancio 2022 viene “istituito un apposito fondo, finalizzato ad incentivare l’apertura dei centri per la preparazione per il riutilizzo”. Ottima notizia, dato che è certamente il metodo di trattamento dei rifiuti con l’impatto ambientale più basso – quindi, più conforme all’economia circolare – subito dopo la prevenzione. Peccato che dal 2010 si attendano ancora i decreti del ministero dell’Ambiente contenenti “le ulteriori misure necessarie per promuovere il riutilizzo dei prodotti e la preparazione dei rifiuti per il riutilizzo” e, in particolare, “le modalità operative per la costituzione e il sostegno di centri e reti accreditati […] ivi compresa la definizione di procedure autorizzative semplificate…”.

In pratica, lo Stato ha stanziato incentivi per la costituzione di attività economiche (i centri per la preparazione e il riutilizzo di rifiuti sono anche e soprattutto questo; anche se i titolari di solito non hanno le risorse di chi costruisce un termovalorizzatore) che, però, non possono ancora materialmente operare perché quello stesso Stato – rappresentato dal ministero dell’Ambiente – da dodici anni non ha emesso la normativa necessaria a questo fine, come pure ne avrebbe avuto obbligo di legge.

Ma v’è di più. Nel settembre 2020 veniva emanato un decreto legislativo – di attuazione di una delle direttive europee sull’economia circolare – con cui pareva si volesse finalmente smuovere la morta gora in cui è finita la preparazione per il riutilizzo. Infatti, vi si prevedeva che le relative operazioni potessero essere avviate, dopo – neanche a dirlo! – l’entrata in vigore dell’apposito decreto che avrebbe dovuto essere emanato, mediante “segnalazione certificata di inizio di attività” (SCIA), quindi con un procedimento snello. Evidentemente, in sede governativa quest’esito, cui si era giunti dopo soli dieci anni di attesa, deve esser parso semplicistico. Per cui, dopo soli otto mesi, si è pensato bene di riformare la riforma, eliminare la SCIA e introdurre una “verifica e controllo” preventivi al posto dell’autocertificazione. Il tutto sancito in un “decreto semplificazioni”: e dove, se no?

Per tornare alla legge di bilancio, vi si dispone che le imprese che intendono svolgere le attività di preparazione per il riutilizzo si debbano iscrivere in un apposito registro.
L’iscrizione al registro, però, presuppone sia che l’impresa possa presentare una “dichiarazione di inizio attività”, sia la vigenza del decreto ministeriale sulla base del quale l’autorità competente dovrà effettuare la preliminare verifica e controllo dei requisiti previsti. Il punto è che la dichiarazione d’inizio attività, con riferimento alla preparazione per il riutilizzo, è stata soppressa dal decreto Semplificazioni e il decreto ministeriale – che il solito ministero avrebbe dovuto emanare entro 60 giorni dal settembre 2020 – è ancora nel mondo delle idee, come da migliore tradizione. E con questo si chiude il cerchio. Sarà questa la legislazione circolare secondo il legislatore italiano.

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