Il Papa invoca la pace in nome della Pasqua. Putin se ne fa beffe, e con lui il guerrafondaio patriarca Kyrill, oltretutto la Pasqua ortodossa viene tra una settimana…L’Occidente, in particolare americani e inglesi, aumentano le forniture d’armi perché sanno che i negoziati sono in stallo e che le trattative con Mosca per ora anche; inoltre gli ucraini non intendono cedere al diktat del Cremlino e i russi, dopo l’affondamento del loro incrociatore Moskva, vogliono vendicarsi, aumentando l’intensità dei loro attacchi e la qualità strategica dei loro obiettivi. La Storia purtroppo si ripete nei suoi catastrofici ricorsi. E così certi fantasmi si risvegliano al rombo delle cannonate e alle atrocità degli assedi. Gli spettri cioè della memoria, e dei ricordi traumatici.

Proprio poche settimane fa ricorreva il trentesimo anniversario dell’assedio di Sarajevo iniziato con l’occupazione dell’aeroporto nella notte tra il 4 e il 5 aprile da parte delle milizie serbe, durato 1425 giorni – il più lungo della storia contemporanea – e costato la vita a 11541 abitanti, di cui 1601 bambini (senza dimenticare gli oltre 50mila feriti). Un trauma collettivo spaventoso, inguaribile. Quasi scontato paragonare la spaventosa tragedia di Sarajevo a quella di Kiev, un boomerang emotivo che ha riaperto ferite dolorose, profonde, inaccettabili; e scenari in cui i sussulti martellanti di guerra, le colpe impunite e le innocenze tradite dall’orrore riempivano il nostro palcoscenico di testimoni inani, e incapaci di bloccare le carneficine, gli eccidi, la barbarie.

Ma c’è un “ma”. Quello che succede oggi nelle città assediate in Ucraina è diverso da ciò che successe a Sarajevo. Kiev, per esempio, si è potuta difendere: “Sarajevo, invece, era disarmata”, mi dice Semsudin Gegic, 70 anni, regista acclamato (e premiato, anche in Italia) di documentari e regista di culto di teatro di guerra nella Sarajevo assediata “perché era il nostro bisogno urgente e nutrimento spirituale” – oltre che ex reporter di guerra per la tv bosniaca per cui è stato direttore del programma di RTV BiH. “Fin da subito i serbi ci isolarono dal resto del mondo, occupando l’aeroporto, chiudendo le vie d’accesso (e di fuga), bombardandoci sistematicamente. A Kiev metà della popolazione è potuta fuggire. Noi siamo rimasti intrappolati, alla mercé dei cannoni e dei cecchini che ci massacravano dall’alto delle colline che avevano occupato fin da marzo. A Kiev, per fortuna di chi è rimasto, le esplosioni sono state relativamente poche, da noi c’è stata una media di 329 bombe al giorno, una volta furono addirittura 3700… i serbi ci tolsero acqua, luce, gas. Non c’erano gli smartphone, con cui oggi sei sempre connesso col resto del mondo. Non c’era Internet. C’era il silenzio del mondo: i serbi colpirono subito le sedi della nostra radio e televisione nazionale. Se siamo vivi lo dobbiamo alle missioni di solidarietà internazionale. Nessuno ci armò, perché l’assedio era impenetrabile. Superammo il primo inverno tagliando tutti gli alberi disponibili in città. Poi moltissimi furono costretti a bruciare i libri, a utilizzare tutto quello che non era indispensabile come combustibile. Dovemmo imparare a sopravvivere, ad ingegnarci di sopravvivere, come mia figlia Emina ha scritto nel suo romanzo Nero sensibile, senza poterci difendere”.

Gli aiuti alimentari erano scarsi, centellinati, non c’erano i supermercati opulenti di oggi, come quelli saccheggiati dalle truppe russe in Ucraina, e le scorte di Sarajevo finirono ben presto, “perciò diventammo chef creativi con le erbe dei campetti e nei vasi che tenevamo in casa, con le ortiche… l’acqua la prendevamo dai pozzi, sperando di non essere colpiti dai cecchini”. Si contava sulle pause dei loro turni, si è poi saputo che avevano persino un tariffario per ogni vittima, i bambini “valevano” mille marchi tedeschi, le donne incinte poco meno (700), le donne 500, gli uomini 300.

“Semmai, il vero parallelismo da porre non è sull’assedio delle città, pratica militare ancestrale, bensì sull’aggressione. Allora, Slobodan Milosevic, il presidente serbo della ex Jugoslavia, non tollerò la sua disintegrazione, e soprattutto il nostro referendum che decise l’indipendenza della Bosnia Erzegovina. Sarajevo era una città multietnica, multiculturale, multireligiosa. Eravamo abituati a vivere insieme, a rispettarci, c’erano tantissimi matrimoni misti. Ci siamo illusi. L’obiettivo di Milosevic e di Radovan Karadzic, il leader dei serbi di Bosnia, era distruggere la cultura multinazionale e quella multiculturale. Dominare su un altro Stato, sulle persone: trasformare i cittadini di un Paese indipendente in bersagli. A differenza degli ucraini, noi siamo stati sottoposti ad un embargo totale, solo attutito dal contrabbando di notte e dagli aiuti umanitari, che però arrivavano col contagocce.

Tutti oggi mandano armi all’Ucraina. Nessuno ce le mandò, a noi. Solo quando riuscimmo a scavare un tunnel che passava sotto l’aeroporto, riuscimmo a far scappare molta gente, a far arrivare cibo e qualche arma leggera, perché la galleria era bassa e stretta. Putin sta facendo lo stesso di Milosevic e Karadzic. Dice che la disintegrazione dell’Unione Sovietica è stata una catastrofe. Non tollera che l’Ucraina, ex importante repubblica dell’Urss (come noi Bosnia, ex parte della Jugoslavia), scelga una strada diversa dalla sua, che sia davvero indipendente e democratica, anche se il suo percorso all’inizio è stato confuso e burrascoso. Ha cominciato sobillando i russofoni del Donbass, aiutando militarmente i secessionisti. Come da noi, poiché la base dell’ideologia serba era che ovunque ci fosse una minoranza serba, quella era Serbia. Gli aggressori soffocano la libertà, l’autodeterminazione. Il potere dell’aggressione è la più grande malattia dell’umanità”.

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