Più della morte, interessa il percorso che Edy Ongaro, nome di battaglia “Bozambo”, ha compiuto in Donbass dove era riparato sette anni fa, per sfuggire alla giustizia italiana. Alla fine di marzo il quarantaseienne originario di Portogruaro, in provincia di Venezia, è stato ucciso in una trincea da una granata lanciata dagli ucraini contro l’esercito del Donbass, che combatte assieme ai russi. Era finito laggiù da molto tempo, con l’obiettivo di combattere quella che ancora sembrava essere una guerriglia di carattere locale. Adesso i ministeri dell’Interno e degli Esteri italiani vogliono capire come l’uomo sia arrivato in Ucraina, che contatti abbia avuto, quali fossero i suoi collegamenti italiani e come è vissuto in questi anni.

Dall’inizio della guerra i nostri servizi stanno cercando di ricostruire la mappa di quelli che impropriamente vengono definiti foreign fighters. Per questo vogliono ricostruire anche l’itinerario e i collegamenti di un’altra italiana che è andata a combattere, ma sul fronte opposto. Si tratta di Giulia Schiff, 23 anni, veneziana di Mira, che è stata espulsa dall’Aeronautica dopo aver denunciato otto tra compagni e ufficiali che si sarebbero macchiati di vessazioni nei suoi confronti, in particolare durante il rito dell’iniziazione – con bagno in una fontana – dopo l’ottenimento del brevetto di pilota. Ha annunciato sui social di essere schierata con gli ucraini, contro i russi. Perché lo ha fatto? Chi la paga? Quali sono i suoi legami con l’esercito ucraino e come ha potuto raggiungere il paese? Sono queste le domande che interessano le autorità governative italiane.

L’annuncio della morte di Ongaro era stato dato dal Coordinamento ucraino antifascista: “Con immenso dolore comunichiamo che Edy, nome di battaglia Bozambo, è caduto da combattente per difendere il popolo libero di Novorossia dal regime fascista di Kiev”. La sua fuga era cominciata dopo che era arrestato in un bar, nel Veneziano, per aver preso a calci una cameriera che si era rifiutata di servirgli da bere. Era ubriaco e quando erano arrivati i carabinieri aveva reagito in modo violento, facendo finire in ospedale, con gravi lesioni, uno dei militi che erano intervenuti. Fermo immediato e comparsa davanti al giudice che gli aveva concesso i termini a difesa. Era quindi stato scarcerato in attesa della conclusione dell’inchiesta preliminare. A quel punto aveva deciso di lasciare tutto, la famiglia e l’Italia, per inseguire il sogno di chiara impronta comunista.

Questo dato risulta anche da una intervista che aveva rilasciato nel 2015. “Sono entrato nella brigata Prizrak. Se ricevo una ricompensa? Sì, una colazione, un pranzo e una cena oltre a un kalashnikov che si chiama Anita, come la moglie di Garibaldi”. Due mesi fa, quando Putin ha invaso l’Ucraina, ha rilasciato un commento entusiasta: “Di rimorsi ne ho solo uno: non aver iniziato prima a lottare veramente”. Tutto il materiale, compresi i collegamenti con familiari e amici nel Veneziano, è finito sotto la lente di osservazione dei nostri servizi. Ad interessare i nostri investigatori ci sono i contatti con la struttura filorussa in Ucraina e i collegamenti in Italia.

Il tema dei rapporti tra Italia e movimenti indipendentisti del Donbass è stato sollevato anche da un’interrogazione del senatore del Pd Vincenzo D’Arienzo e indirizzata al presidente del consiglio Mario Draghi e al ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese. Chiede se il nostro governo sia a conoscenza del fatto che Verona sia stato un punto di riferimento per la ricerca di contatti da parte dei sostenitori dell’interventismo di Putin. “Dall’annessione russa della Crimea e poi dalla crisi nel Donbass, entrambe del 2014, diversi politici veronesi hanno organizzato eventi per diffondere le ragioni di Putin – scrive – e, nel frattempo, hanno frequentato la città di Verona allargando, presumibilmente, le proprie relazioni e conoscenze, alcuni soggetti”. Cita Igor Sechin, amministratore delegato di Rosneft, compagnia petrolifera russa. Ma anche Alexander Shokhin, presidente dell’Unione russa degli industriali e Vladimir Solovyov, conduttore Tv molto vicino a Putin. “Tutti e tre – spiega il senatore – sono stati invitati dall’Associazione Conoscere Eurasia (guidata da Antonino Fallico) nel cui direttivo ci sono russi e veronesi”. Ricorda poi come Verona “è stata sede, nel 2019, del Congresso mondiale delle famiglie, il cui ospite d’onore fu Alexey Komov, che lavora per la fondazione creata da Konstantin Malofeev, oligarca russo ultra-nazionalista sotto sanzioni dal 30 luglio 2014”.

Poi un affondo diretto alla Lega. “L’evento fu patrocinato dal Ministero guidato dal ministro veronese Lorenzo Fontana, molto attivo nei rapporti con la Russia”. Veronese è poi il consigliere comunale, nonché deputato leghista, Vito Comencini, che nel 2018 aveva proposto la revoca della cittadinanza onoraria all’allora presidente ucraino Poroshenko. Infine, “a Verona è presente il responsabile dell’ufficio territoriale della Repubblica Popolare di Donetsk (Donbass), non riconosciuta dall’Ue, il quale è presidente dell’Associazione Veneto-Russia”. Si tratta di Palmarino Zoccatelli. D’Arienzo insinua che alle iniziative possano aver partecipato appartenenti ai servizi segreti russi e chiede a Draghi “se i soggetti citati siano stati accompagnati da collaboratori e se siano noti i profili dei medesimi”.

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