“L’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” dice chiaramente uno dei più importanti principi fondamentali della nostra Costituzione. Andrebbero piuttosto privilegiate le soluzioni diplomatiche ma resta difficile capire come queste possano essere agevolate dall’espulsione dei rappresentanti diplomatici. Senza parlare di aspetti decisamente ameni come gli yacht degli oligarchi, le paralimpiadi o le mostre feline. Argomenti che non fanno che rafforzare il consenso di chi sta al potere e può mostrare di essere vittima di un complotto mondiale.

Da noi tutti si affannano a ribadire di voler evitare la cosiddetta “escalation”, eppure sembra innegabile che da un mese e mezzo siamo in guerra. Lo si percepisce chiaramente dal modo in cui sono utilizzati i media: schierati in un modo che non avevamo mai visto da ottant’anni a questa parte. È chiaro che siamo coinvolti in questa dis-avventura quasi obtorto collo (siamo “allineati”, come ha detto Draghi) in quanto Paese Nato. Ora più che mai si mette in evidenza la pesante subordinazione scaturita dal modo disastroso in cui siamo usciti dall’ultima guerra mondiale.

Quanto alle conseguenze indirette, sul piano economico emerge l’eccessiva dipendenza dal gas russo e il ritardo in quella “transizione ecologica” che dovrebbe passare anzitutto per serie misure di risparmio energetico. Le sanzioni comminate danneggiano in via prioritaria le nostre esportazioni, quindi il settore produttivo che già stentava a ripartire dopo la crisi dovuta all’emergenza sanitaria. Siamo in recessione tecnica. Gli aumenti dei costi delle materie prime importate porta l’inflazione a cifre che non si vedevano da oltre trent’anni. Pesanti contraccolpi si registrano sui titoli quotati in borsa: più in generale si va a intaccare il risparmio delle famiglie. Aumenta sia la pressione fiscale, sia il debito per le spese militari da affrontare. Ma tutto ciò è nulla di fronte al dramma umanitario cui dobbiamo assistere. Città colpite nei quartieri residenziali, vittime militari e civili, esodo di dimensioni inaudite per un paese europeo di oltre 44 milioni di abitanti. Gente comune che lascia le proprie case, la propria terra, la propria vita relazionale: parenti, amici, lavoro, risparmi in monete che deprezzano inesorabilmente, attività sportive e culturali, scuole. Infanzie negate o gravemente compromesse.

Nel corso delle mie lezioni con gli studenti detenuti a Rebibbia, proviamo a contenere il coinvolgimento emotivo che naturalmente ci attanaglia e ad alzare lo sguardo per esaminare la faccenda dal punto di vista che più ci compete: come studiosi del diritto, siamo di fronte al momento in cui si instaurano nuovi ordinamenti giuridici. In ossequio alla dottrina del giurista tedesco Hans Kelsen, è proprio in occasione di guerre, rivoluzioni, azioni comunque violente (guardando alla storia, lui annoverava frequenti casi di usurpatori) che si stabilisce la grundnorm, norma fondamentale da cui derivano a cascata, a formare una sorta di piramide, tutte le regole della vita associata che nel loro insieme formano il diritto oggettivo. È in quel frangente che si definisce chi va considerato patriota e chi terrorista, chi detta le regole e chi è fuorilegge, in stringente senso letterale. Si erigono monumenti al centro delle piazze, che insieme alle strade cambiano nome per commemorare e talvolta glorificare i vincitori, coloro che sono stati capaci di istituire un potere costituito e sancire un nuovo diritto positivo (dall’appropriato termine latino “positum”). Così nascono le Costituzioni, insiemi di regole fondanti, e di lì l’intero impianto della normazione primaria e secondaria. Da mettere in relazione con le sempre più influenti norme del diritto internazionale.

I popoli che vivono su determinati territori sono tenuti a sottostare non solo alle leggi ma anche ad una narrazione condivisa dettata da chi detiene il potere. Non tanto quello politico, economico, militare ma sempre più oggi quello dell’informazione, con cui si possono forgiare le coscienze collettive. Troviamo illuminanti in questo campo le considerazioni del saggista, storico e filosofo Yuval Noah Harari.

La storia e la geografia mondiale sono costellate di conflitti che interessano le zone di frontiera, normalmente contese tra due Stati. Non sempre i confini politici e amministrativi corrispondono a ciò che le diverse nazionalità vorrebbero rivendicare per proprie caratteristiche storiche e culturali, oltre che etniche e talvolta religiose. Impossibile non citare l’annosa questione palestinese, capace di infiammare da oltre mezzo secolo l’intera area mediorientale, o quella dei curdi o della ex Jugoslavia. In scala ridotta e fortunatamente oggi molto meno traumatica, anche la nostra Italia ha dovuto considerare nei suoi confini settentrionali le minoranze linguistiche francesi, tedesche e slave cui è stata attribuita l’autonomia speciale nelle regioni della Val d’Aosta, Alto Adige e Friuli Venezia Giulia. La secessione della Padania, al contrario, si è rivelata essere piuttosto una boutade per buontemponi, priva com’è di qualsivoglia fondatezza.

Emblematico è stato anche il caso della Catalogna, ove una maggioranza schiacciante rivendica l’indipendenza rispetto alla Spagna. Non avendo alcun riconoscimento giuridico o diplomatico, l’autoproclamata “Repubblica Catalana” non dispone di istituzioni, né di qualsiasi effettività e il suo presidente Puigdemont vive tuttora all’estero, alle prese con una complicata vicenda giudiziaria. Lo Stato, per sua natura intrinseca, non ammette la copresenza di più poteri e presuppone il monopolio della forza legittima.

Detto questo, possiamo solo immaginare quale sarà il futuro per le popolazioni ucraine. Come sempre è avvenuto in passato, tutto si stabilirà nei tavoli delle trattative di pace. È lì che si definiscono territori e confini e da lì nasceranno narrazioni condivise, capaci di unire interi popoli sotto nuovi ordinamenti giuridici. Nella speranza che arrivi presto una pace e si possa gradualmente tornare a condurre vite il più possibile “normali”.

Articolo Precedente

Venywhere, il progetto che vuole ripopolare il centro storico di Venezia attirando lavoratori da remoto e convincendo i laureati a non andar via

next
Articolo Successivo

I tank russi in Ucraina hanno accelerato la fine della pandemia: cosa ci insegna la ‘vera’ guerra

next