Il secondo rientro di John Frusciante nei Red Hot Chili Peppers è una di quelle ciambelle il cui buco è appena visibile. Unlimited Love, confezionato con la solita furbizia dal genio di Rick Rubin, è un lavoro forse simpatico ma non certo bello, di cui parecchio è stato detto ancor prima che uscisse tanto da dar ragione a chi, ancora oggi, non ha voluto sentirne per una mera questione di principio. Se il sapore nostalgico di Black Summer poteva far credere fossero tornati i Novanta, è bastato arrivare ai successivi singoli estratti per comprendere, con certezza, di essere di fronte ad un lavoro sì onesto ma nulla più. E pur apprezzando la generosità con cui Anthony Kiedis e compagni hanno scelto di riversare su disco ben 17 canzoni, a confronto di questo Unlimited Love addirittura il tanto vituperato (all’epoca) Stadium Arcadium finisce per suonare più ispirato.

Da tempo i Red Hot Chili Peppers sembrano più rosa che rossi ed è un attimo ritrovarli anche stavolta più simili all’ultimo The Getaway che non a Californication o By The Way: lavoro, questo, che un fan di quelli duri e puri del gruppo prenderebbe a pretesto per indicare l’inizio della fine dei quattro. A mancare, incredibile a dirsi, è proprio Frusciante: un po’ per il mix finale, vuoi anche per le parti da lui scritte e suonate, il contributo del tanto atteso figliol prodigo arriva tutt’altro che ispirato nelle ritmiche come negli assoli. Se Chad Smith e Flea non mancano nel loro inconfondibile protagonismo, l’ex fuggiasco sfodera una prova pari a quella di un Josh Klinghoffer qualsiasi: distinguendosi più per qualche coro sullo sfondo, che per le sferzate della sua sei corde.

Ribadendo ancora la qualità dell’impacchettamento, Unlimited Love presenta insomma un sapore così posticcio che, superata neanche la metà dei brani in esso presenti, la curiosità lascia spazio facile alla noia: della California si avverte insomma solo l’afa, non certo gli aspetti più iconici e decadenti. Quando l’autocitazionismo della già menzionata Black Summer e di Here Ever After lascia il posto al groove di Aquatic Motion Dance o, a stretto giro, alle punte un po’ acide di Not The One, ecco che volendo generosamente includere pure la successiva Poster Child il sipario potrebbe tranquillamente iniziare a chiudersi.

Il resto di questo lavoro, che resuscita solo parzialmente nel finale (Tangelo), mette alla prova anche i più cortesi e pazienti: per quanto rispetto si abbia (o si debba avere) per una band di tale importanza, non si può certo negare come questi 73 minuti di musica assumano i contorni più di una tortura che non di un’esperienza felice. Di appagante c’è ben poco, specie guardando al tempo intercorso tra questa e l’ultima volta che i qui presenti avevano avuto modo di ritrovarsi in studio: sedici anni, mica niente.

Di illimitato, e di amore, c’è invece solo l’affetto dei fan, di chi dell’arte qui incisa fruisce altrimenti in streaming: l’ennesima conferma, amara, che non c’è reunion che tenga. Ritrovarsi, ognuno con la propria formula, è bastato a Black Sabbath, Guns N’ Roses, Alice In Chains, Faith No More, Pixies (e chi più ne ha più ne metta) a sfornare qualcosa che meritasse, pure un minimo, di finire in scaletta? La risposta ovvia è no. Forse, banalmente, ogni cosa ha senso finché è viva e vegeta l’energia di chi ne è coinvolto: altrimenti, anche scegliere di andare esclusivamente in tour sarebbe comunque un gran vivere per tutti i diretti interessati.

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