Mezzo secolo dalla morte di Escher, l’uomo i cui disegni sono particolarmente apprezzati da chi ama la matematica. Il 27 marzo 1972 Maurits Cornelis Escher moriva a 73 anni nell’Olanda in cui era nato. Nel tempo aveva visitato mezza Europa; in particolare aveva vissuto diversi anni in Italia, da cui se ne andò nel 1935, insofferente del regime che aveva imposto al figlioletto la divisa da Balilla. Pessimo studente, aveva avuto la fortuna di incontrare un Maestro, Samuel Jessurun de Mesquita, che lo aiutò a trovare la propria personalissima strada, divergente da quelle della tumultuosa evoluzione artistica di inizio Novecento.

Fama e stima gli arrivarono soprattutto postume: in vita era ammirato dai matematici, ma non era un matematico; si sentiva un artista, ma era snobbato dagli artisti. Fu criticato per tutta la vita dai parrucconi che dicevano “questa non è arte, è grafica”, proprio come Philip K. Dick di cui dicevano “questa non è letteratura, è fantascienza”; io potrei portare esempi di “questa non è matematica, è informatica”; se quella gente smettesse di sentenziare e provasse a fare qualcosa di nuovo, il mondo mi piacerebbe di più.

Anni fa, in occasione di una mostra, feci una carrellata di opere di Escher; potete visitarle attraverso i link di questa pagina. La stessa mostra venne commentata da una storica dell’arte. Diversi libri parlano di lui; consiglio quello di Bruno Ernst. Io, da profano, mi limito qui a dire cosa mi colpisce della sua opera. Già i ritratti e i paesaggi – soprattutto quelli dell’Italia meridionale – mi fanno intuire uno spirito inquieto: proprio il contrasto fra i normalissimi soggetti e la loro resa grafica evoca un’impressione peculiare; mi scappa di vederli come quadri astratti (sensazione che provo anche davanti a capolavori come la Flagellazione di Piero della Francesca e le Battaglie di San Romano di Paolo Uccello).

Da matematico, sono ovviamente affascinato dai Limiti del Cerchio: l’infinito viene riportato al finito. Da tempo Escher esplorava disegni ripetitivi che riempissero il piano; ci giocava anche con lo scambio fra figura e sfondo; forse lo disturbava il fatto di poter catturare solo un pezzo di queste costruzioni. Come infilare infiniti tasselli in un quadro limitato? Aveva già effettuato un tentativo – la silografia Sviluppo II – ma quando vide, su un libro del matematico Harold Coxeter, una rappresentazione del piano iperbolico capì che aveva trovato una soluzione.

Il piano iperbolico è l’oggetto di una geometria non euclidea; in uno dei possibili modelli, i suoi punti sono i normali punti di un cerchio, ma quelle che vengono chiamate rette sono in realtà archi di circonferenza ortogonali alla circonferenza di bordo; gli assiomi della geometria euclidea vengono rispettati, tranne il famoso postulato delle parallele. Escher ci va a nozze: i poligoni con cui gioca, in cui inserisce pesci, angeli, diavoli, sono (teoricamente) in numero infinito, coprono tutto il loro universo, sono sovrapponibili gli uni agli altri nella metrica di quella geometria, anche se noi euclidei li vediamo diventare sempre più piccoli mentre si avvicinano al bordo, che per loro è all’infinito.

Altri motivi per cui Escher è un “matematico inconsapevole” sono i suoi studi sul Nastro di Möbius e sui poliedri; c’è poi l’incredibile trasformazione del piano in Galleria di stampe, di cui sarebbe troppo lungo parlare.

I miei preferiti, però, sono gli oggetti impossibili. Non sono una sua invenzione: ci si erano già cimentati, per esempio, i Penrose e Oscar Reutersvärd; mentre questi ci offrono costruzioni impossibili con uno stile geometrico, Escher le immerge in situazioni realistiche. Nell’irrealizzabile Belvedere ci sono cavalieri e damigelle, di fianco all’assurda Cascata una signora stende il bucato, su e giù per Salita e discesa ci sono monaci incappucciati. Tutto ciò rende ancora più paradossali i disegni: ovunque fissiamo lo sguardo tutto sembra normale, se lo muoviamo non troviamo salti; eppure l’insieme non è di questo mondo.

Naturalmente i matematici si sono sbizzarriti per trovare in quali “mondi” quei disegni siano possibili, ma questa è un’altra storia. A proposito: può una macchina, un algoritmo scoprire se un disegno è impossibile? Questo è stato per un certo tempo un problema allettante; nel 1986 lo risolse, con algebra lineare elementare, Kokichi Sugihara; andate a vedere i suoi fantastici video!

Ma insomma: quella di Escher fu vera arte? Citando Rhett Butler, francamente me ne infischio.

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