Cecilio è in piedi, in fondo alla piragua (canoa) e maneggia con maestria il timone, mentre ci addentriamo nel cuore del fiume Chagres. Uomo intorno ai 30 anni, indigeno del popolo Emberá, Cecilio è uno dei membri della comunità indigena “Parará Purú” che da anni si sostiene con attività di turismo comunitario dentro quello che, dal 1984, è diventato il Parco Nazionale di Chagres.

Gli Emberá sono uno dei popoli indigeni della Repubblica di Panama e sono custodi di una connessione ancestrale con gli elementi della natura, una conoscenza profonda che permette loro di vivere in armonia e rispetto, con un ambiente all’apparenza selvaggio e ostile. Cecilio veste l’abito maschile tradizionale del suo popolo e con sguardo attento scruta ogni ombra, ogni movimento, ogni cambio di colore della selva che si apre di fronte alla canoa. Mentre dirige l’imbarcazione, sovente indica un uccello o un’iguana, animali celati alla vista di chiunque nel fitto e lussureggiante verde che ci circonda, ma non agli occhi di chi, come lui, “sente” la foresta.

Questa impressionante capacità e destrezza nel muoversi in un contesto così sfidante e potenzialmente mortale, racconta Cecilio, ha attirato l’attenzione anche della Nasa, che all’inizio degli anni ’60 confidò a un importante indigeno Emberà una missione cruciale: addestrare alla sopravvivenza nella selva gli astronauti dell’Apollo 11, la missione spaziale che avrebbe raggiunto la luna il 20 luglio 1969. Cecilio inizia a parlare di un grande Jaibaná (guida spirituale), un famoso cacique Emberá, nonno di sua moglie, passato alla storia per aver “toccato la luna”.

Si tratta di Manuel Antonio Zarco, originario di Rio Chico (Daríen panamense) che intorno al 1940 si trasferì con la sua famiglia a Gamboa, zona del Canale di Panama nella quale il lago artificiale Gatún si unisce al fiume Chagres. Si suppone che Antonio nacque nel 1914, in quella zona, impervia e ostile per noi “occidentali”, dove lui apprese i segreti della caccia, della pesca, delle piante e di come comunicare con la natura. La sua abilità con arco e freccia, la sua profonda conoscenza della piante medicinali e il suo carisma lo convertirono presto in un punto di riferimento per la comunità.

Il suo volto e la sua destrezza arrivano però alla ribalta internazionale quando la Nasa lo scelse per diventare istruttore di sopravvivenza della Survival Tropic School della United States Air Force, con sede nella base aerea di Albrook, nella zona del Canale di Panamá (che all’epoca era sotto il controllo Usa). Gli “studenti” di Manuel Antonio non furono però persone comuni, bensì Neil Armostrong, Edwin Aldrin Jr. e Michael Collins.

Il maestro indigeno aveva il compito di garantire la sopravvivenza dei tre membri della missione spaziale nel caso che al ritorno sulla Terra fossero caduti in una selva tropicale (la storia ci dice che poi ammararono nell’Oceano Pacifico). Insegnò loro come procurarsi il cibo e acqua potabile, come evitare le trappole mortali della selva, come cacciare e come ripararsi dai pericoli e dalle intemperie. Però Zarco insegnò anche un’altra cosa agli astronauti: indicando la Luna, spiegò ad Armostrong, Aldrin e Collins che, secondo la tradizione del suo popolo, lì dove gli astronauti sarebbero andati riposavano gli spiriti degli antenati Emberá.

E’ così che la tecnologia più avanzata dell’epoca e il sapere ancestrale indigeno si sono incontrati nella selva panamense, un connubio di progresso scientifico, saggezza indigena e mito per la missione che ha cambiato la storia dell’umanità. Oggi per gli Emberá, come racconta Cecilio, lo spirito del Jaibaná Manuel Antonio Zarco (morto nel 2010) riposa proprio là, sulla Luna, dove i suoi amici astronauti misero piede nel 1969.

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