C’è molta confusione sui cosiddetti “oligarchi” russi, ossia quei pochi ricchissimi cittadini che dispongono di immense ricchezze, depositate per lo più all’estero. In origine questa fortunata élite fu il frutto della vendita di asset del paese operata sotto la presidenza di Boris Eltsin, tra il 1991 e il 1999 , anni in cui il reddito dell’1% più abbiente della popolazione passa dal 4 al 28% del totale. Oggi molti di quei nomi sono lontani dal Cremlino e del tutto ininfluenti sulle decisioni di Vladimir Putin. L’ex Kgb ha anzi troncato bruscamente i legami con molti dei re di denari dell’era eltsiniana, rimpiazzati in molti casi da uomini di fiducia del presidente, espressione dei servizi segreti. Molti dei vecchi oligarchi sono finiti esiliati all’estero o se ne sono andati per evitare problemi. Nomi come Boris Berezovsky, Vladimir Gusinsky o Mikhail Khodorkovsky. Tra i pochi sopravvissuti al cambio della guardia nella piazza Rossa ci sono Vladimir Potanin, a capo del colosso del nickel e del palladio Mmc Norlisk Nickel, Mikhail Fridman e Petr Aven che controllano il conglomerato Alfa Group. La condizione posta dal Cremlino di Putin per rimanere in sella è chiara: “Non immischiarsi e non criticare”.

Ciò non di meno molti di loro sono oggetto delle sanzioni di Stati Uniti e Unione europea, varate dopo la guerra in Crimea del 2014 e poi rafforzate ed estese in seguito all’invasione dell’Ucraina arrivando a colpire 680 individui. L’efficacia di queste sanzioni rischia però di essere flebile grazie alla protezione offerta a questi patrimoni (come a quelli di dittatori o narcotrafficanti di tutto il mondo) dalle giurisdizione segrete, i cosiddetti paradisi fiscali. Economisti e studiosi molto attenti a queste dinamiche, nelle ultime settimane hanno evidenziato come il caso delle ricchezze di politici e uomini d’affari vicini alla presidenza russa enfatizzi ulteriormente la necessità di intervenire su questi sistemi fiscali. Se non ora quando? Si è chiesto ad esempio Daron Acemoglu dalle pagine di Project Syndicate spiegando come la “chiusura” dei paradisi fiscali sia il vero test sulla risoluzione dei paesi occidentali nel contrastare le élite russe.

Eva Joly, magistrata, ex membro del parlamento europeo dove è stata vicepresidente della Commissione su riciclaggio ed evasione fiscale, oggi membro della commissione Icrict (Indipendent commission for the reform of international corporate taxation), spiega a Ilfattoquotidiano.it: “I patrimoni russi detenuti nei centri offshore includono conti bancari, azioni in società quotate e private, immobili, opere d’arte, yacht e jet. Sebbene siano stati compiuti progressi sullo scambio automatico di informazioni per i conti bancari, nei paradisi fiscali non esistono registri pubblici che tengano nota dei veri titolari delle altre attività e gli investitori possono utilizzare società di comodo/trust per nascondere proprietà e ricchezze. Uno studio recente ha dimostrato come le società russe abbiano utilizzato catene di società di comodo per investire in Europa tramite società domiciliati nelle Isole vergini britanniche e Cipro, cosa che rende molto difficile per le autorità fiscali applicare sanzioni”.

Il livello di concentrazione della ricchezza russo è estremamente elevato. L’1% più abbiente della popolazione controlla oggi il 50% della ricchezza del paese. Dato che si confronta con il 27% della Francia e il 35% degli Stati Uniti. La quota di ricchezza attribuibile al solo 0,01% più ricco della Russia vale il 12% della ricchezza nazionale. Secondo alcune stime degli economisti Gabriel Zucman, Thoms Picketty e Filip Novokment la quota dei patrimoni dei cittadini russi più facoltosi detenuti all’estero è almeno del 60%, e vale più dei depositati in patria dall’intera popolazione. Questi patrimoni denominati in valute pregiate non temono il crollo della valuta nazionale o il rallentamento della crescita economica russa, destinati invece a falcidiare risparmi e redditi della popolazione.

Sono ricchezze quasi irrintracciabili. Le regole di paesi come Lussemburgo, Jersey, Bahamas, isole Cayman o isole Vergini (che di fatto dipendono da Londra), contemplano un livello di segretezza difficile da scalfire. Inoltre strutture giuridiche come il trust britannico hanno al capacità di separare virtualmente un individuo dalle sue ricchezze. In particolare in miliardari russi tendono ad appoggiarsi a Cipro e alle isole vergini britanniche ed hanno ingenti investimenti in asset immobiliari europei, molto spesso schermati da società di comodo. Per anni si sono fatti ponti d’oro ai patrimoni dei miliardari russi, New York e Londra si sono distinte nella calorosa accoglienza, la capitale britannica al punto da meritarsi il nomignolo di Londongrad. Nel complesso i patrimoni individuali nascosti in questi si avvicinano ai 10mila miliardi di dollari. L’entità di questi patrimoni è tale da sfasare, secondo alcuni esperti, le reali statistiche sulle diseguaglianze.

“Ciò che serve – continua Eva Joly – è la piena trasparenza della titolarità effettiva di tutti i tipi di asset ed è per questo che come Icrict abbiamo chiesto la creazione di registri patrimoniali nazionali, regionali e globali, che raccoglierebbero e collegherebbero sistematicamente queste e informazioni”. Secondo l’esperta è possibile che la crisi in corso offra l’occasione per implementare davvero misure che i politici occidentali non sono stati sinora disposti ad attuare in pieno. Nell’ultimo mese la Gran Bretagna ha finalmente deciso di introdurre un registro dei titolari di entità non britanniche che possiedono o acquistano terreni nel Regno Unito. Un progetto che il governo si era impegnato ad adottare già nel 2016 ma per 5 anni non se ne è fatto nulla. Due mesi fa la proposta stava addirittura per essere ritirata. Il conflitto ha avuto però l’effetto di accrescere la sensibilità dell’opinione pubblica sulle proprietà immobiliari russe in Inghilterra e quindi il registro dovrebbe vendere la luce entro fine anno.

“L’Unione europea, rimarca Joly, ha imposto la creazione di registri nazionali che riportino la titolarità effettiva delle società e dei trust attraverso la 5a direttiva antiriciclaggio. Alcuni paesi, tra cui l’Italia non li hanno ancora attuati, altri stati come il Lussemburgo hanno varato versioni molto deboli e aggirabili di questi registri”. I governi, sottolinea l’ex parlamentare europea, devono anche garantire le risorse sufficienti alla corretta ed efficiente gestione di questi registri e l’Ue dovrebbe assumere un ruolo guida nella creazione di un registro patrimoniale europeo, incaricato di raccogliere e collegare sistematicamente queste informazioni”. La Svizzera si è unita al gruppo di paesi che hanno imposto sanzioni di varia natura contro Mosca, rompendo la sua storica neutralità. Eppure, come rimarca la dott.ssa Joly, “La Svizzera è di gran lunga il paradiso fiscale in cui è nascosta la maggior parte della ricchezza russa, nel paese sono depositati l’equivalente di circa 200 miliardi di euro di provenienza russa, molto più di quanto si trovi a Cipro. Oltre alla Svizzera sono molti i paesi che hanno facilitato l’occultamento e lo spostamento di questa ricchezza. Se si analizzano i flussi di investimenti in entrata e in uscita dalla Russia spiccano Regno Unito, Paesi Bassi, Cipro, Svizzera e Irlanda”.

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