Nella Francia medievale i condannati a morte non potevano ricevere il sacramento della confessione. Nel 1397 un editto reale intervenne nell’intento di sanare questa pratica, denunciata con forza come sacrilega da Jean Gerson, cancelliere sorbonardo e teologo, il quale stigmatizzò la pratica di negare i sacramenti: dopo il battesimo, ogni uomo aveva l’obbligo di confessare i peccati. A chi gli obiettava che così il condannato avrebbe fornito confessione parziale per nascondere i propri peccati, Gerson replicava che se il criminale avesse confessato tutto, a dio non sarebbe rimasto nulla da giudicare nell’altro mondo.

La concessione, tuttavia, fu più che altro formale: il condannato a morte saliva al patibolo e pronunciava la cosiddetta amende honorable, che era una procedura infamante in cui egli si assumeva la responsabilità dei propri crimini e si diceva, in sostanza, lieto della propria pena.

In Italia, invece, era in uso una confessione privata, curata da confraternite che assistevano i condannati, come nel caso della congiura contro i Medici che portò all’esecuzione di Pietro Paolo Boscoli, il quale icasticamente chiese al proprio confratello di “levargli questo Bruto [ovvero il celebre monarcomaco] dalla testa”.

Con la secolarizzazione, l’amende honorable, racconta Adriano Prosperi nel suo Delitto e perdono, in alcuni paesi si modificò, in altri trovò una nuova vita. Se per esempio nei Paesi Bassi dopo il 1600 si smise di praticarla, in quello stesso torno di anni essa divenne una pratica che si saldò con le pretese del sovrano inglese di obbedienza alla corona e di adesione alla dottrina del diritto divino dei re. Giacomo I pretendeva che i condannati a morte sottoscrivessero, poco prima della pena capitale, il giuramento di fedeltà.

Quegli scaffold speech, tuttavia, si trasformarono in un’arma a doppio taglio: intesi come edificanti per le masse, fecero sì che il condannato sul patibolo usasse quel momento per la propaganda e la resistenza al potere.

Le parole, in quel contesto, avevano un peso enorme. Nel 1352, Edoardo III d’Inghilterra, con uno statuto aveva stabilito il reato di tradimento per chi avesse agito attentando alla vita del re, ma anche ‘immaginandone’ la morte. Nel 1534, Enrico VIII estese la prescrizione, fissando la nozione (e il reato) di ‘tradimento con le parole’. Edoardo VI, successore di Enrico, la abolì, ma Elisabetta I, letteralmente ossessionata dal tradimento la reintrodusse, ampliandola.

Ma la Treason by words permise un dibattito sulla libertà di coscienza che produsse l’affermazione della libertà contro le pretese del potere politico di controllare le parole e i pensieri dei sudditi.

In questi giorni, per venire alle questioni che ci attanagliano, Paolo Nori ha denunciato il clima di discriminazione per i russi, come se l’essere russo fosse tout court una colpa, e la surreale cancellazione di un suo corso su Dostoevskij. Ma questo stigma non colpisce solo i russi che niente c’entrano con Putin. Colpisce anche gli amici e i sostenitori di Putin che non lo rinnegano. Poco male, si dirà: quelli se lo meritano. E invece occorre dire, e con forza, che uno Stato liberale difende la libertà di espressione, anche quando essa è esecrabile, quando non ci piace, quando è scandalosamente lontana dal nostro sentire. O meglio: si può inchiodare qualcuno alle sue opinioni, ma si può chiedere di abiurare?

È il caso di Valery Gergiev, direttore d’orchestra e amico del presidente russo, a cui la Scala di Milano, nella persona del sindaco Giuseppe Sala, ha chiesto un atto di abiura: condannare la guerra, pena l’esclusione dalla direzione della Dama di picche di Čajkovskij (Gergiev è già stato licenziato da diversi teatri e scaricato dal proprio agente).

Intendiamoci, non si tratta qui di difendere gli oppressi, come nell’Inghilterra di Elisabetta e Giacomo erano i cattolici, ma, proprio e ancora come nell’Inghilterra di Elisabetta e Giacomo, contrastare l’idea che la congiura di Essex e la Congiura delle polveri potessero dare in mano ai sovrani, che pure avevano ‘ragione’, poteri straordinari per censurare l’opposizione. Poteri straordinari perché silent leges inter arma. Il motto ciceroniano farebbe pensare a una dicotomia semplicistica, come spiega Rebecca Lemon nel suo Treason by words: il despota che governa a dispetto del bene comune. Ciò che invece gli scrittori di quel periodo impegnati nella battaglia per la libertà di coscienza (Ben Jonson, per esempio, che scrive proprio La congiura di Catilina) dimostrano, è che tiranno non è solo colui che abusa del potere, ma anche colui che invoca poteri straordinari per il bene dello Stato.

Uno Stato liberale non può evocare il ‘tradimento con parole’ dei supposti valori occidentali e non può pretendere il giuramento di fedeltà. Difendere Dostoevskij è troppo facile. È Gergiev che è difficile, ma necessario, difendere.

Articolo Precedente

Boom per gli ebook in pandemia: gli editori lavorano sui loro cataloghi in digitale

next
Articolo Successivo

Ucraina, al di là del tifo pochi pensano ai civili: l’indifferenza vince sull’empatia

next