Conoscere la storia di solito serve a poco, perché la politica sembra sempre esserle superiore. Ma ci sono dei momenti in cui la politica si rifà, volutamente, alla storia per giustificarsi. Il discorso con cui Putin si è rivolto al mondo, ma soprattutto al suo popolo, per giustificare il riconoscimento dei secessionisti del Donbass e minacciare l’Ucraina è intriso di storia. Di una storia vista con gli occhi di Mosca, certo. Ma poiché di storia si tratta, e non di politica, si può provare a determinare se ciò che ha detto sia vero. E in buona parte lo è. Non mancano le fonti cui abbeverarsi, l’ultima e più aggiornata da noi è la Storia e geopolitica della crisi ucraina. Dalla Rus’ di Kiev a oggi di Giorgio Cella.

Il legame millenario tra le popolazioni slave dell’attuale Ucraina e dell’attuale Russia è incontestabile. Anzi, come lo stesso Putin ha ribadito in un suo lungo articolo di qualche settimana fa, la Russia è figlia del Rus di Kiev, la prima configurazione statale in quelle terre, il luogo dove la religione cristiano-ortodossa sostituì i culti precedenti, con un significato culturale analogo a quello, ad esempio, della conversione dei Franchi in occidente. A spezzare in parte quella unità, in parte a spingerla a risalire a settentrione verso gli attuali centri nevralgici della Russia fu la spinta mongola che nel 1240 di fatto distrusse Kiev, già indebolita dalla medievale tendenza alla frammentazione dinastica e nobiliare. Ci vorranno secoli in quelle immense pianure, i cui unici punti di riferimento geografico su cui ancorare i confini sono i fiumi, perché si riformasse una parvenza di stato, orientale ma non asiatico. Che non fu ucraino, ma piuttosto baltico.

Terra di conquista per i polacco-lituani, cristiani che scendevano dal nord, e dei turchi, islamici che risalivano dal sud, più o meno contemporaneamente alla vera nascita della Russia, quando i principi di Mosca si trovarono ad ereditare l’immenso prestigio culturale di capi del mondo ortodosso per la caduta di Costantinopoli. Mosca diventava la terza Roma, e i principi, divenuti zar, i “protettori” di quell’ecumene e, latamente, dell’intero mondo slavo. Per avere qualcosa di ucraino, almeno in senso geografico, indipendente, gli hetmanati cosacchi, tocca aspettare i tempi dei Promessi sposi. Un esempio che non scelgo a caso, dato che nel libro si parla di una Lombardia spagnola, tanto per dire di quanto lontana “politicamente” sia quella situazione, dall’oggi o dal secolo scorso.

È, libro per libro, il tempo di Taras Bulba, E di lì a poco i capi cosacchi compiranno una scelta che, storicamente, ci porta ai nostri tempi. Sceglieranno di allearsi con gli svedesi di Carlo XII contro i russi di Pietro il grande. Già, gli svedesi. Chi ricorda oggi che c’erano loro, laggiù nel territorio ucraino, a Poltava, a battersi coi russi per il controllo dell’Europa orientale? E a perdere. Avete presente Pietro Micca? Oggi la storia non si studia più per episodi edificanti, ma siamo lì, in un lontanissimo inizio del Settecento. E come da quelle vicende savoiarde prende il via la storia che porta pezzetto per pezzetto all’unità d’Italia, così da quelle altre vicende prende il via la storia che porta alla definizione dell’Impero Russo nei suoi confini sempre più vasti.

Per due secoli l’unione dei due rami slavi della storia diventa un fatto compiuto. Compiuto? Qui entrano in gioco mille fattori culturali. E’ compiuta l’unità d’Italia, se ancora oggi abbiamo i neoborbonici e prima i leghisti, esaltatori di una Padania con molte meno radici storiche dell’Ucraina? E’ compiuta quella spagnola? E la Scozia? E il Belgio, allora, esiste davvero. La storia ci dice sì, forse. Per adesso.

Un errore Putin lo commette, volutamente credo, quando con ceffo da boss minaccia gli ucraini di dargliela lui la decomunistizzazione. Perché richiama la nascita comunista dell’Ucraina, con i confini che oggi vediamo sugli atlanti. Chissà se vi ricordate la pubblicità di quello che si vendeva all’inizio degli anni Novanta, il cosmonauta russo che tornava a terra felice di rimettere i piedi sul suolo russo e la vecchia contadina che gli diceva “ma che Russia, Ucraina!”. Quei confini fissati da Lenin nella creazione dell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche, una delle quali era appunto l’Ucraina. Una finzione burocratica, una “soluzione” affidata, pensate, a Stalin, al problema di come può la Russia comunista liberarsi della contraddizione nel prendere il posto di un Impero. Come si può proclamare la rivoluzione e il sovvertimento del vecchio ordine sociale, senza lasciare ai popoli, che quell’Impero ha colonizzato e conquistato, la loro libertà e autodeterminazione. Tanto per dire: gli Stati Uniti hanno risolto il problema di coscienza con qualche casinò per i nativi americani, non certo con il rispetto dei trattati sui territori indiani.

Per un movimento che pensava di creare l’uomo nuovo in nome dell’internazionalismo proletario, confini e etnie erano, ovviamente, retaggi del passato destinati a svanire nel sol dell’avvenire. Ma ecco dove Putin sbaglia. Su una ideale carta geografica in tempo reale l’Ucraina appare prima delle scelte leniniste. La disegnano i generali prussiani dopo aver sconfitto prima l’esercito zarista, poi quello di Kerenski, infine la neonata Armata Rossa. In una anticipazione del Lebensraum hitleriano, Ludendorff porta i confini degli stati vassalli della Prussia più o meno là dove arriveranno anche le armate con la svastica. I paesi baltici, Estonia, Lituania, Lettonia, così come l’Ucraina fino al Don sono sotto il diretto controllo economico di Berlino, i turchi si riprendono ciò che hanno perso nel corso dell’Ottocento lungo il Caucaso, la Crimea diventa, o meglio dovrebbe diventare – non si fa in tempo – un repubblica tatara dove mandare in vacanza i tedeschi.

La Russia è privata di un terzo della popolazione suddita dello zar. L’Ucraina, quella Ucraina, è il simbolo dell’umiliazione della Russia. I piani per il nuovo ordine europeo con l’elmo a chiodo naufragano sui campi di Francia. Ma quella Ucraina resta nemica di Mosca. Sotto il controllo dei controrivoluzionari del generale Denikin, già che c’erano, le sue truppe si diedero ad un classico di quelle zone: le stragi di civili ebrei costituiscono una delle tre branche della controffensiva che con l’aiuto di Inglesi, Americani, Francesi, Giapponesi, Tedeschi, Polacchi, Cechi (perfino qualche centinaio di italiani dalle parti di Vladivostok) voleva cancellare subito dalla faccia della terra la Russia comunista. Non ci riuscirono. Poco più di vent’anni dopo, come sappiamo, le cose si ripeterono in modo esponenzialmente più drammatico.

Ancora una volta l’Ucraina era il simbolo della umiliazione russa e, stavolta, sovietica. L’immensa sacca di Kiev, le centinaia di migliaia di prigionieri. Il ripetersi dei pogrom in versione genocida, estranei, noi italiani compresi. con gli stivali sul suolo della rodina, la madrepatria, la santa Russia su cui ieri Putin ha di nuovo fatto leva. E poi per la terza volta in un secolo, col collasso dell’Urss, la separazione. Legale e legittima, anche se bizzarra. Votano, visto che esiste la Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, solo gli Ucraini sulla loro indipendenza. Un po’ come vorrebbero i Catalani. In Spagna, sembra, non vale. Se votassero tutti insieme con i russi, finirebbe come nel 1860, in America: secessione, non indipendenza. Con tutto il diritto di Lincoln di imporre a ferro e fuoco la riunificazione.

A quello allude, cinico e pericoloso, Putin ironizzando “ve la do io la decomunistizzazione”. Così come il Donbass assomiglia davvero al Kosovo, rispetto alla Serbia. Là bombe, anche nostre, per garantire l’autodeterminazione e la modifica dei confini, qui sanzioni, per ora, anche nostre per impedirla. Separazioni definitive. Definitive? Ogni principe di Kiev, ogni Zar, ogni Atamano, ogni generale ha pensato che il suo equilibrio fosse definitivo. Mentre, come abbiamo visto, nulla è definitivo. La spinta centrifuga dei popoli che vogliono sfuggire il giogo di Mosca, contro la attrazione gravitazionale di quella che è, e resta, la forza dominante di quelle terre. Quando i giornali scrivono che Putin vuole ricostruire l’Urss provano ad inserire – gli serve per non doversi dire antirussi – uno spin anti-comunista, in una vicenda che col comunismo non ha più nulla a che spartire, più vecchia di nove secoli, più giovane di trent’anni.

Quel che Putin mette in gioco col discorso in tv è la Russia, l’Impero, lo zarismo come forma “naturale” del potere a Mosca. Roba di lunghissima durata, roba su cui si sono costruite identità millenarie. Ignorarle può portare ad errori fatali.

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