Tempi duri per le agenzie di viaggio. Hai voglia a lavorare su ammodernamento delle strategie, segmentazione dei clienti e personalizzazione dell’offerta. I nuovi competitor arrivano direttamente da Instagram e si chiamano travel blogger (anzi: travel content creator; l’attività di blogging comporta un minimo di testo da elaborare, qui ormai si vedono solo immagini, filtri e faccine). Usando la propria fanbase come bacino commerciale, questi creatori di contenuti in qualche modo legati al travel stanno, in numero sempre crescente, diventando dei veri e propri tour operator. Tutto ciò è espressione perfetta dei meccanismi di Instagram, trasformatosi ormai in un bazar virtuale dove l’unica cosa che conta sono i soldi che riesci a fare con il tuo profilo. Così, a partire da contatti di lavoro sviluppati durante i propri viaggi, i travel content creator hanno intessuto collaborazioni con hotel ed enti del turismo, che utilizzano per costruire tour organizzati da proporre ai propri followers.

Molti di essi sono millennials che, dicono le statistiche, sono più propensi dei loro genitori a partire da soli o, al polo opposto, ad aggregarsi a gruppi di sconosciuti coetanei pur di non partire in solitaria. D’altronde, come dice la solo traveler Allison Anderson, “acquisita un minimo di stabilità lavorativa, si iniziano ad avere priorità differenti persino da quelle degli amici, obiettivi diversi, tutti sono così impegnati nella propria vita che diventa molto difficile organizzare un viaggio e non scontrarsi su quello che si vuole vedere o altro”. Tradotto: viviamo in un momento di individualismo così spinto che si fa perfino fatica a mediare con gli amici.

Per tagliare la testa al toro, i millennials che non vogliono spostarsi in autonomia si rivolgono ai The Globbers – contenuti pastellosi di atolli Maldiviani (Maldive a gennaio con i corridoi turistici? Avanguardia pura) abbinati a post motivazionali (madre mia, ma perché?) e a pensieri che potrebbero anche avere un significato autonomo se non finissero con un banalotto #adv – che da semplici travel content creator hanno deciso di far fruttare la propria fanbase proponendo viaggi dalla Giordania al Sudafrica. O a Mente Nomade, “creatore digitale che fa cose su internet”: c’è anche la sua firma in KeTrip, tour operator che ammicca ai millennials ipersocial. O a SiVola.it, portale alimentato dagli instancabili motori sociali di profili come quello del noto e bravo Nicolò Balini aka Humansafari, affiancato da colleghi meno noti come Daniel Mazza.

Ci sono poi anche travel content creator come il duo di miprendoemiportovia, che offre ai propri accoliti dei corsi, ovviamente a pagamento, per imparare le tecniche di “chi c’è l’ha fatta” (io, che sono giornalista di viaggio e ho visitato mezzo mondo, non direi mai di me una cosa simile: credo che uno che c’è l’ha fatta sia Elon Musk, ma ognuno ha le sue idee di successo): una serie di video-lezioni in cui si spiega come maneggiare i meccanismi di Instagram in modo da rendere appetibile il proprio profilo e diventare super mega travel content creators.

Ora, fermo restando che queste attività sono lecite, mi permetto di dare un consiglio non richiesto ai soprascritti e a tutti i travel content creator che siano, chi più, chi meno, in grado di suggestionare scelte di viaggio altrui. Quello che io vedo è tanta, troppa standardizzazione delle proposte – l’aurora in Lapponia grida vendetta, le mongolfiere della Cappadocia vorrebbero volare via con i loro content creator nel cestello, Petra in Giordania semplicemente non ne può più di quei selfie di massa dall’alto – che seguono la logica facilona dell’instagrammabilità del luogo piuttosto che altri parametri più salutari.

Le immagini tutte uguali, l’ossessiva copertura social dei viaggi (prevengo obiezioni del tipo: “Ma è il mio lavoro!”: Avventure nel mondo, che fa lo stesso mestiere, ha strategie social molto meno moleste ma altrettanto valide) e la spinta su una comunicazione effetto wow sono scelte dopanti che contribuiscono a creare nei follower un craving psicologico da viaggio. Oltre a peggiorare un fenomeno devastante come l’overtourism, l’eccesso di turismo concentrato nei luoghi mainstream che, ne sono certo, riprenderà puntuale alla fine della pandemia. Anche la spinta sui voli low cost è sbagliata. Spiace, ma qui bisogna iniziare a mediare tra i budget risicati dei millennials e il ricorso troppo frequente a quello che è il più inquinante tra i mezzi di locomozione. So di dire una cosa poco popolare, persino dannosa per il mio lavoro, ma se vogliamo davvero alleggerire la nostra impronta sul pianeta dobbiamo metterci in testa che viaggiamo (leggi: torneremo a viaggiare) troppo. In attesa che le compagnie introducano nuove tasse per i frequent flyers e mettano a punto politiche serie di carbon offsetting, potremmo iniziare noi per primi a fare qualcosa.

Chi esercita un minimo di influenza sulle scelte di viaggio altrui dovrebbe, credo, usarla per proporre posti poco conosciuti, oppure posti nuovi in luoghi già conosciuti. E ricordarsi, magari, che se si ha sempre un telefono in mano del viaggio non rimane nulla. Nulla. Solo qualche frame spruzzato di ego e condito con un filtro di Instagram.

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