La Spagna non ha mai brillato nel campo della ricerca scientifica. Dati dello scorso anno mettono a nudo come la spesa pubblica in ricerca e sviluppo sia una delle più povere tra i membri dell’Unione Europea, pari a 22,40 euro per abitante, meno della metà di quanto investito in Italia (56,70 euro per abitante). Lo scossone prodotto dalla pandemia si è avvertito forte anche in Spagna, tanto da imporre al centro del dibattito politico il tema della ricerca in ambito medico, mentre tra i cittadini all’analfabetismo scientifico si è sovrapposto il desiderio d’informazione, malgrado il frastuono che proviene dai social.

La questione chiave è quella dei ricercatori, in terra iberica come nel nostro paese. Difficile l’accesso ai programmi scientifici, precariato dilagante, e poi familismo (l’amoral familism, come diceva il politologo Edward C. Banfield) e baronaggio a orientare le scelte scardinando ogni soluzione meritocratica. In un sistema così fragile è risultata inevitabile la perdita di posti di lavoro (ben cinquemila nel quinquennio 2011-2016), con la fuga di cervelli vista come fenomeno in costante crescita. Ora il Ministro della Ricerca scientifica Diana Morant prova a mettere un freno al declino e a provocare una netta inversione di tendenza.

Un progetto di riforma è stato presentato sul tavolo del Governo del socialista Pedro Sánchez, un cambio di passo, innanzitutto in termini di finanziamento, con un ricco piatto di circa quattro miliardi, provenienti in gran parte da Bruxelles. Tre le direttrici del progetto di legge: creare opportunità, trattenere i talenti e dare voce, e nuova dignità, alla comunità scientifica.

Il Ministro Morant ci crede, l’ex sindaco di Gandía – cittadina marittima che si affaccia sulla costa valenciana – già all’atto del suo insediamento, nel luglio 2021, fece proclami di rilancio, disegnando un diverso scenario per i giovani impegnati nella ricerca. È evidente che l’intero impianto della riforma legislativa non può che poggiare sui soldi da investire e sulle figure contrattuali da applicare al personale. Un nuovo contratto a tiempo indefinido è messo al centro per combattere la precarietà, pochi settori, come la sanità o gli istituti di ricerca, hanno registrato un susseguirsi di contratti a tempo determinato, fonte di frustrazioni che possono durare decenni. Non poche volte è intervenuta la Corte di Giustizia Europea per fissare paletti alla successione di quei contratti così favorendo processi di stabilizzazione, con i giudici del lavoro, sia spagnoli che italiani, che si sono pian piano adeguati agli indirizzi sovranazionali.

Nuovi contratti per la ricerca quindi, sono i cosiddetti “I+D” (Investigación + Desarrollo), con una durata dai tre ai sei anni, valutazioni intermedie dirette alla stabilità e con diritto a cospicua indennità in caso di risoluzione. Rapporti svincolati dalla tasa de reposición, il meccanismo che tende a fissare un rigoroso equilibrio tra il personale da collocare in pensione e le assunzioni da farsi: insomma, posti di lavoro dove occorre vuol dire maggiore flessibilità nella spesa pubblica, con buona pace per i rigoristi austriaci e olandesi che di tanto in tanto alzano la voce contro le politiche espansive gradite ai paesi del Mediterraneo.

Altro asse portante della riforma è la igualdad de género, una effettiva uguaglianza basata sulla significativa presenza, pari ad almeno il 40%, di donne scienziate nelle commissioni di valutazione dei progetti di ricerca. Il tempo dirà se la buona volontà del ministro Morant darà frutti, non sarà facile in un paese che in un recente passato ha già visto sfumare nel nulla lodevoli propositi di riforma in campo scientifico.

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