Nella bagarre dei giorni del Quirinale è passata in sordina l’approvazione da parte della Camera dei Deputati del disegno di legge Introduzione dello sviluppo di competenze non cognitive nei percorsi delle istituzioni scolastiche e dei centri provinciali per l’istruzione degli adulti, nonché nei percorsi di istruzione e formazione professionale. Presentatori: Lupi e Colucci (Noi per l’Italia); Aprea, Calabria, Palmieri, Cattaneo e Gelmini di FI; Toccafondi di IV (ex PdL); Casa del M5S; Garavaglia della Lega; Frassinetti di FdI; Gariglio, Delrio e Lattanzio (ex M5S), tutti del Pd. Ora giace in Senato in attesa dell’approvazione definitiva.

La legge introduce un’ulteriore attività, trasversale a tutte le discipline, che potrebbe/dovrebbe servire ad affiancare le competenze tecniche e culturali (hard skills), i contenuti e i metodi delle discipline scolastiche, con quelle generate dall’intelligenza emotiva dei ragazzi e dal loro background famigliare e sociale (soft skills). Qualche esempio di soft skill: fiducia in se stessi e autostima; capacità di adattarsi in fretta alla scuola, alla società, all’azienda; resistenza alle tensioni e allo stress; capacità di organizzare e pianificare, studiare, applicare e ascoltare; intraprendenza, comunicatività e resilienza; capacità di lavorare in gruppo, di saper negoziare, di esercitare leadership e così via.

Si tratta di un adattamento alla dimensione scolastica di temi ed elementi che provengono direttamente dal mondo del job placement. Come spesso accade, il tutto sulla scia di pratiche che – partendo dalla giusta esigenza di costruire collegamenti fra scuola, lavoro, inserimento sociale e benessere psico-fisico (cittadinanza) – hanno prodotto le mostruosità dell’alternanza scuola/lavoro, dell’autonomia scolastica a uso e consumo dei dirigenti.

La prima definizione dei life skills l’ha prodotta nel 1993 il Dipartimento di Salute mentale dell’Oms e rappresenta ancora oggi un buon tentativo di individuare le competenze emotive, relazionali (soft skills) e cognitive (hard skills) necessarie a promuovere il benessere personale, l’educazione scolastica e l’inserimento lavorativo. L’ipotesi su cui si regge il tutto è che le soft skills siano “insegnabili”, ovvero che la scuola debba occuparsene trattandole come discipline trasversali alle materie curricolari.

La moda si è rapidamente diffusa e la legge ne è un esempio, fin dalle sue finalità: combattere l’abbandono, aiutare i ragazzi a inserirsi meglio nella società, assegnando alla scuola il compito di formare – insieme alle competenze e alle capacità culturali e interpretative – anche gli aspetti della loro personalità che la società considera deficitari. Così, quando dovranno compilare il loro curriculum, potranno indicare non solo i titoli di studio, cosa sanno fare e che esperienze hanno compiuto, ma anche fornire un quadro di ciò che sono come persone.

Sembra proprio l’ennesimo tentativo di snaturare la scuola: cancellarne definitivamente il carattere di “isola franca” in cui costruire pensiero critico, autonomia di elaborazione e giudizio, competenza e colleganza, soprattutto capacità. Un’isola franca circondata da un mondo differente, ma capace di costruire e garantire lo spazio giusto per crescere, imparare metodi e contenuti, ricercare il modo più originale con cui ciascuno può riuscire a proporsi per stare al mondo con dignità.

L’abbandono scolastico, l’esclusione, la frustrazione del fallimento – lo sa chiunque abbia messo piede in una scuola – non si combattono con la semplificazione eccessiva dei contenuti fino alla banalizzazione del sapere e all’eliminazione dello sforzo per raggiungere la meta. Se così fosse, nelle nostre scuole non ci sarebbero né abbandoni né disagi, invece sono teatro di quotidiani fallimenti e di frustrazioni a volte capaci di segnare esistenze. Non si combatte neanche scaricando sulla scuola ogni genere di competenze per allontanare responsabilità che stanno altrove: a volte fa più un mediatore culturale per gli allievi stranieri e le loro famiglie che ricerche e convegni con fiumi di parole; un tablet e connettività da fornire senza delegare alle famiglie l’uso di bonus che incoraggiano abusi che, a loro volta, produrranno le sceneggiate televisive dei leader politici sovranisti.

Si è risposto alle evidenti manchevolezze della scuola con provvedimenti e misure immaginate per tappare falle, non per affrontare, prima culturalmente e poi praticamente, la crisi di un’istituzione che riflette quella della società: al bullismo e al disadattamento si risponde con lo psicologo a disposizione; all’evidente difficoltà di rispetto delle regole sociali si risponde con le ore di educazione civica; alla mancanza di organizzazione di contenuti e metodi di insegnamento all’altezza dei tempi si risponde con i corsi di recupero e la riduzione dei saperi ai minimi termini.

Eppure di esperienze, sperimentazioni, modelli ce ne sarebbero a cominciare da quelli che negli anni ’70 fecero della scuola lo strumento per l’integrazione di grandi masse di immigrati al nord. Eppure è chiaro come il sole che la scuola, per rifiatare, ricostruirsi e tornare ad aspirare a un ruolo centrale nella società, ha solo una strada: tornare a svolgere in modo qualificato la sua funzione, depurandosi da tutti gli orpelli pseudo-pedagogici da cui è stata caricata. La scuola deve cambiare, deve tornare a essere lo strumento con cui la società, la nostra, garantisce sviluppo del pensiero critico, la libertà di studiare il mondo e di analizzarne le altrui interpretazioni per arrivare ad averne una nostra, facendo tesoro delle conoscenze che la psicopedagogia mette a disposizione, delle tecnologie che facilitano e complicano le cose nello stesso momento, dei cambiamenti sociali che impongono una diversa articolazione dell’apprendimento delle giovani generazioni.

La legge sembra prefigurare l’esatto contrario: un mondo in cui la scuola, caricata dell’obiettivo di formare anche il carattere, produce giovani resilienti e obbedienti, tanto carini se no per loro finisce male. Se ne è reso conto perfino Galli della Loggia, che dalle colonne del Corriere ha manifestato meraviglia a fronte di un Parlamento che l’ha votata quasi all’unanimità, incurante o ignorante delle conseguenze del pensare alla scuola come totalmente asservita al resto della società. Ecco perché il Senato dovrebbe intervenire e il mondo della scuola anche.

D’altra parte dell’educazione dei giovani, life skill incluse, sembra che in tanti se ne occupino, ciascuno con gli strumenti che ha a disposizione: come leggere diversamente le manganellate agli studenti che protestano contro l’alternanza, figlia di questa logica, che ha appena ucciso uno di loro?

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