Dalla Rivoluzione alla ‘normalizzazione’: così il presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, sta modificando la sua strategia per uscire da otto anni di repressione e terrore nei confronti degli attivisti anti-regime. Dialogo e concessioni in luogo di arresti indiscriminati e condanne assurde, puntando alla riconciliazione con chi, nel frattempo, è scappato. Uno dei capitoli su cui si basa questa nuova linea di azione riguarda Patrick Zaki che il 1 febbraio affronterà un’udienza molto delicata. A dicembre è stato rilasciato dopo ventidue mesi di prigione e ora il caso potrebbe chiudersi definitivamente. Uno dei registi dietro il nuovo corso del regime egiziano è senza dubbio Mohamed Anwar al-Sadat, nipote dell’ex presidente, ex candidato alle presidenziali del 2018 (poi ritiratosi dalla corsa come tutti gli altri competitor), leader politico e pezzo portante della Commissione per i Diritti Umani del Cairo. In un’intervista rilasciata a Ilfattoquotidiano.it a fine ottobre, al-Sadat aveva prospettato uno scenario favorevole per Zaki, poi effettivamente scarcerato. Adesso siamo al secondo, e si spera ultimo, atto della vicenda.

Anche stavolta ha pensieri positivi alla vigilia della sentenza Zaki del 1° febbraio prossimo?
Sì, resto ottimista. Sia chiaro, è tutto nelle mani della Corte, ma immagino Patrick tornare alle sue lezioni all’università di Bologna.

Quale scenario ci dobbiamo aspettare martedì prossimo?
Non so con certezza se il processo terminerà subito, magari per il verdetto bisognerà attendere qualche giorno, ma resto convinto che lo vedremo viaggiare presto verso l’Italia.

Cosa pensa del caso e del ragazzo?
Patrick si merita di poter tornare allo studio, alle sue passioni e al suo futuro. Di recente ho avuto modo di incontrarlo personalmente e mi ha fatto un’ottima impressione. È saggio, educato, ragionevole, intelligente, insomma una bella persona.

Esattamente sei anni fa avveniva la scomparsa di Giulio Regeni, poi ritrovato morto e sfigurato otto giorni dopo. Cosa ricorda di quel giorno?
Mi trovavo in Parlamento durante una seduta della Commissione per i Diritti Umani. Restammo scioccati dalla notizia e fummo subito chiamati a investigare sulla vicenda, capire cosa fosse successo. Al tempo era tutto molto confuso.

Oggi, secondo lei, le idee su quanto accaduto al ricercatore dell’Università di Cambridge sono più chiare?
Direi di no, ma dobbiamo tutti fare il possibile per arrivare alla verità su quell’omicidio, fa parte della nostra responsabilità.

La Ministra della Giustizia italiana, Marta Cartabia, si è detta disposta a incontrare il suo corrispettivo egiziano al Cairo per chiedere collaborazione sulle indagini, a partire dagli indirizzi dei quattro uomini dei servizi segreti finiti alla sbarra in Italia: lo ritiene un passo utile?
Il Ministro ha il diritto e il dovere di compiere tutte le azioni che ritiene necessarie per avvicinarsi alla verità e certo non posso biasimarla per il suo impegno. Detto questo…

Detto questo?
Non credo riuscirà a ottenere troppe informazioni sul conto dei soggetti che la giustizia italiana ritiene responsabili della morte di Giulio.

Cosa glielo fa pensare?
Vede, le autorità del Cairo, giudiziarie e politiche, non sono affatto convinte della colpevolezza dei quattro membri della National Security Agency. Gli assassini sarebbero altri, non loro, e dunque questo potrebbe bastare per non ricevere collaborazione in tal senso. Lo stesso nuovo Ambasciatore italiano al Cairo (Michele Quaroni, ndr) ha confidato di non credere che questo aiuto possa arrivare.

Sulla possibilità di ottenere quegli indirizzi?
Esatto. L’ho incontrato pochi giorni fa e, parlando proprio di questo tema, mi ha detto di star provando a fare di tutto per reperirli (nel 2019 l’Italia ha presentato una rogatoria alle autorità egiziane per ricevere la comunicazione ufficiale delle residenze dei quattro imputati, ndr), non senza difficoltà. Lui mi sembra molto determinato, non ha ancora ricevuto il ‘battesimo’ ufficiale dal presidente al-Sisi, ma accadrà presto

Negli ultimi mesi diversi attivisti per i diritti umani, politici, giornalisti, avvocati e così via sono stati liberati: cosa sta accadendo in Egitto?
Il presidente al-Sisi e il suo governo si sono resi conto che è giunto il tempo della riconciliazione, servono pace e stabilità, serve dare dignità alle persone e garantire il diritto di espressione. Per questo sta dismettendo i vecchi penitenziari e costruendo nuove carceri. A Tora, ad esempio, è già iniziata la demolizione.

Questo atteggiamento non rischia di essere un fuoco di paglia secondo lei?
Non credo, ormai la linea è tracciata. Lei ricordava le diverse scarcerazioni ‘eccellenti’, le star, ma tanti detenuti meno famosi sono tornati a casa nel frattempo.

Ramy Shaat, tra i leader della protesta di piazza Tahrir, è stato rilasciato poche settimane fa. Ma è stato però espulso dall’Egitto.
Era l’unica soluzione possibile per vederlo fuori dal carcere. Presto, nel giro di pochi mesi, gli potrebbe essere concesso un visto speciale per tornare in Egitto.

Lo stesso non è accaduto ad altri attivisti molto noti come Alaa Abdel Fattah. Se la sente di dire che entro il 2022 lui e tutti gli altri verranno rilasciati?
Io penso di sì, dipenderà dal Perdono Presidenziale, credo ci siano concrete possibilità per lui e per gli altri, compreso Ahmed Samir Santawi (lo studente dell’Università di Vienna arrestato esattamente un anno fa al ritorno dalla capitale austriaca per un breve periodo di vacanza e successivamente condannato a 4 anni di reclusione, ndr).

Il giro di vite nei confronti delle ong che difendono i diritti umani non rischia di rendere inutili tutte le aperture verso gli attivisti?
Molte organizzazioni come l’Eipr (la stessa dove ha lavorato a lungo Patrick Zaki, ndr) si stanno mettendo in regola piano piano e lo stesso Hossam Baghat, il leader, è ben disposto. La stessa cosa non si può dire per l’Anhri di Gamal Eid, troppo duro e inflessibile, per questo la sua ong sta chiudendo.

Migliaia di egiziani ostili al regime sono scappati all’estero in questi ultimi anni.
Sto personalmente coordinando un progetto e un gruppo di lavoro, tra cui pezzi del governo egiziano, per far sì che i connazionali fuggiti possano rientrare in Egitto a vivere, se credono, o in forma temporanea, senza correre alcun rischio di essere arrestati o soggetti a violenza. Lo posso garantire. Una sorta di amnistia per cementare la pace.

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