Quest’anno un solo giorno di distanza separa il 50esimo anniversario della morte di Dino Buzzati (Belluno, 16 ottobre 1906 – Milano, 28 gennaio 1972) dal centenario della morte di Giovanni Verga (2 settembre 1840 – 27 gennaio 1922), un autore che, nell’Autoritratto affidato al dialogo con Yves Panafieu nel 1971, Buzzati ricorda per dire che cosa di lui, “in fondo”, non gli piace.

Quello di Buzzati con la letteratura e con la scrittura letteraria è in effetti un rapporto un po’ disordinato, fin da quando, da ragazzo, nelle estati trascorse nella villa di famiglia a San Pellegrino, si avvicina a romanzieri come Tolstoj, Balzac, Manzoni, e allo stesso tempo subisce il fascino delle fiabe e leggende nordiche che sente raccontare dalla tata, di famiglia tedesca, e che rivive nella fantasia ambientate nell’amato paesaggio delle montagne circostanti. E anche da adulto, quello dello scrittore non è il suo primo mestiere.

Dopo la laurea in legge a Milano, la sua città, nel luglio 1928 Buzzati entra nella redazione del Corriere della sera, dove lavorerà tutta la vita – tranne per un breve periodo dopo la fine della guerra, quando co-fonda e scrive per il Corriere lombardo –, ricoprendo vari ruoli: cronista di nera, corrispondente di guerra e inviato, e ancora elzevirista e cronista d’arte, fino a diventare caporedattore della Domenica del Corriere (gli articoli di nera degli anni 1945-1971 sono ora raccolti in un volume a cura di Lorenzo Viganò uscito per Mondadori nel 2020).

È nei tempi morti, spesso lunghi, della redazione di via Solferino che Buzzati comincia a scrivere racconti – i primi, pubblicati da Treves, sono Bàrnabo delle montagne (1933) e Il segreto del bosco vecchio (1935) –, avendo in mente “un solo traguardo: quello di commuovere la gente”, senza preoccuparsi di “essere lodato dai critici”. Alla poetica della commozione risponde anche il romanzo che nel 1940, quasi un po’ inaspettatamente, arriva a lanciarlo come scrittore: Il Deserto dei Tartari, pubblicato da Rizzoli. È qui che fa la sua comparsa “il paesaggio struggente ed elegiaco” del deserto, spazio insieme mitico e metaforico che rimarrà centrale in tutta la successiva narrativa buzzatiana, dalla prima raccolta, I sette messaggeri (1942), attraverso Paura alla Scala (1949) e i Sessanta racconti (1958), fino all’ultima, Le notti difficili (1971) – tutte pubblicate da Mondadori.

Nei racconti, che nascono in parallelo alla produzione giornalistica, Buzzati mette a punto gli strumenti di una lingua magica ed evocativa, capace di descrivere un altrove ai limiti del fiabesco, in cui paesaggio e figure umane si confondono in una stessa trasfigurazione fantastica, di segno sempre positivo: è quello che accade ad esempio ai soldati di Eleganza militare, che man mano che avanzano nelle distese sabbiose vanno “assumendo una progressiva bellezza, positiva, dico, assolutamente controllabile dagli occhi umani. E con gioia che non si può dire mi accorgevo che anche tutti noi, tra il polverone giallo del mezzogiorno, subivamo la medesima sorte” (ne I sette messaggeri).

La cifra fantastica della narrativa buzzatiana, così caratteristica da trovare corrispondenza nelle illustrazioni che spesso l’autore accompagna ai propri racconti – celebri quelle de La famosa invasione degli orsi in Sicilia (1945), fino al Poema a fumetti (1969) vincitore del premio Paese sera –, segna uno stacco piuttosto netto rispetto alla sua scrittura giornalistica, anche a dispetto di ciò che Buzzati stesso affermava nel dialogo con Panafieu: “il vero mestiere dello scrivere […] coincide proprio col mestiere del giornalismo, e consiste nel raccontare le cose nel modo più semplice possibile, più evidente possibile”.

Il primo ad accorgersi di questa differenza è stato il poeta Andrea Zanzotto, che in un ricordo del 1982 (Per Dino Buzzati) separava lo “stile leggibile” del Buzzati giornalista dalla “lingua fiorita” del narratore: narratore che, sull’onda dei primi successi letterari, a partire dalla metà degli anni Cinquanta si avventura nei territori del teatro, della librettistica e della poesia, portando con sé tutto il proprio armamentario “magico-espressivo” – Nel deserto, scheletri ottanta / che conservano forma umana / laggiù laggiù, dei fantasmi / barbuti, diafani, fra i turbini / dorati delle sabbie. Uno squillo / oh, di tromba lontana (Il capitano Pic, vv. 1-6).

Del resto, che scrivesse o dipingesse, per Buzzati la cosa più importante era il potere dell’invenzione – che invece gli appariva del tutto trascurata dalla letteratura coeva, ancora in un’intervista al Corriere dell’informazione del giugno 1966: “Oggi troppa gente si illude di poter fare un romanzo che stia in piedi limitandosi a raccontare i propri ricordi dell’infanzia. […] Si direbbe che nessuno sia più capace di inventare storie”.

Non c’è dubbio allora che Buzzati si sarebbe divertito moltissimo con le nuove tecnologie del nostro tempo. Solo un’invenzione non l’avrebbe forse stupito più di tanto, quella dello smartphone, un oggetto che lui stesso aveva già immaginato in un racconto del 1966, Cronache del 2000, in cui il protagonista si risveglia nella Milano del terzo millennio, invasa dai “teletini”: “Si tratta […] di certi telefoni-televisori tascabili con i quali è possibile parlare e vedersi entro un raggio di trenta chilometri. Una moda diventata una sorta di frenesia”. Come scriveva Ferruccio de Bortoli in un ricordo del 2013, “il cronista Buzzati era arrivato, con la fantasia dello scrittore, per primo sulla notizia”.

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