Cade un altro pezzetto di 41 bis, il carcere duro per i mafiosi. Secondo la Consulta viola il diritto di difesa sancito dalla Costituzione la norma, contenuta nell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, che – secondo l’interpretazione della Corte di Cassazione – impone il visto di censura sulla corrispondenza tra il detenuto sottoposto al “carcere duro” e il proprio difensore. La sentenza numero 18 depositata oggi (redattore Francesco Viganò), accoglie la questione di legittimità sollevata dalla stessa Cassazione. La Corte costituzionale osserva che il diritto di difesa comprende – secondo quanto emerge dalla costante giurisprudenza della Consulta e della Corte europea dei diritti dell’uomo – il diritto di comunicare in modo riservato con il proprio difensore e sottolinea che di questo diritto è titolare anche chi stia scontando una pena detentiva. E ciò anche per consentire al detenuto un’efficace tutela contro eventuali abusi delle autorità penitenziarie. Al 41bis, come è noto, sono ristretti i detenuti condannati per reati di tipo mafioso. Il cosiddetto “carcere impermiabile” serve per azzerare i contatti dei boss con l’esterno.

Nel comunicato della Consulta si sottolinea che “è vero che questo diritto non è assoluto e può essere circoscritto entro i limiti della ragionevolezza e della necessità – purché non sia compromessa l’effettività della difesa – qualora si debbano tutelare altri interessi costituzionalmente rilevanti. Ed è anche vero che i detenuti in regime di 41 bis sono ordinariamente sottoposti a incisive restrizioni dei propri diritti fondamentali, allo scopo di impedire ogni contatto con le organizzazioni criminali di appartenenza”. Nonostante tutto, però, la Corte “ha ritenuto che il visto di censura sulla corrispondenza del detenuto con il proprio difensore non sia idoneo a raggiungere questo obiettivo e si risolva, pertanto, in una irragionevole compressione del suo diritto di difesa. Da un lato, infatti, il detenuto può sempre avere – per effetto della sentenza della Corte del 2013, n. 143 – colloqui personali con il proprio difensore, senza alcun limite quantitativo e al riparo da ogni controllo sui contenuti dei colloqui stessi da parte delle autorità penitenziarie. Dall’altro, il visto di censura previsto dalla norma ora esaminata dalla Corte opera automaticamente, anche in assenza di qualsiasi elemento concreto che consenta di ipotizzare condotte illecite da parte dell’avvocato”.

Ciò riflette, ha osservato la Corte, una “generale e insostenibile presunzione di collusione del difensore dell’imputato, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso”. Nella motivazione della sentenza viene sottolineato che le circolari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) in vigore dal 2017 avevano interpretato l’attuale normativa escludendo la legittimità di ogni controllo sulla corrispondenza tra detenuti in 41 bis e i propri difensori, anticipando così gli effetti di questa pronuncia di illegittimità costituzionale.

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