Sono passati sette anni dalla riforma delle Popolari voluta da Matteo Renzi. E ancora non si vede la fine del tunnel per le banche del territorio che recentemente hanno ceduto 90 milioni di crediti a rischio attraverso la Luigi Luzzatti, società appositamente creata per ripulire i bilanci del sistema di credito più vicino alla realtà locale. Con buona pace dei piccoli risparmiatori che hanno investito e perso gran parte del loro capitale come testimoniano centinaia di cause ancora in corso. “Negli ultimi due anni c’è stato un susseguirsi di operazioni di pulizia di bilanci grazie anche alla garanzia pubblica delle Gacs – spiega Renato Limuti, responsabile Credit Portfolio Advisory di Alantra in Italia– nelle ultime settimane del 2021 si sono perfezionate diverse cartolarizzazioni assistite da garanzia pubblica come ad esempio la recente operazione portata a termine da UniCredit per circa 2,2 miliardi di euro di valore contabile lordo e l’operazione multi-originator (cioè con crediti provenienti da diversi soggetti, ndr), guidata dalla Luzzatti per circa 800 milioni di euro in valore contabile lordo. Le cessioni proseguiranno anche nel 2022”.

Questo consentirà alle banche e anche alle popolari di migliorare la qualità dei bilanci. Ma il mondo del credito locale che raccoglieva soldi capitale fra i piccoli soci non tornerà più come prima. “Possibile che si apra una nuova stagione di aggregazioni. Liberati i bilanci dal fardello dei crediti inesigibili, è più facile ragionare sul business”, conclude l’esperto che ricorda come il mercato italiano dei crediti deteriorati detenuti dalle banche italiane si dovrebbe assestare sui 100 miliardi di euro nel 2022. Intanto però “il finanziamento alle piccole realtà del territorio rischia di assottigliarsi”, precisa una fonte finanziaria che preferisce l’anonimato. “Non solo i grandi gruppi stanno chiudendo molti sportelli e chiedono importanti garanzie per concedere i finanziamenti, ma anche le popolari sono diventate estremamente selettive nella concessione dei crediti. Insomma mi sembra si stia rischiando di passare da un eccesso all’altro con il risultato che a pagare il conto siano gli imprenditori e il territorio”.

Inoltre è cambiato completamente lo scenario rispetto a qualche anno fa: a fine dicembre si è chiuso il processo di trasformazione delle grandi Popolari, con attivi superiori ad otto miliardi, inaugurato per volontà del governo di Matteo Renzi nel 2015. Sul finire dello scorso anno, l’ultimo grande gruppo del settore, la Popolare di Sondrio, si è trasformata in società per azioni diventando più appetibile sul mercato. Si è conclusa così una fase importante seguita agli scandali del 2014 da cui emerse che alcune banche locali concedevano con estrema facilità i prestiti e gonfiavano i bilanci con il gioco delle tre carte. Di qui i procedimenti contro l’ex numero uno della popolare di Vicenza, Gianni Zonin, l’ex numero uno di Carige, Giovanni Berneschi, o contro la famiglia Jacobini per anni alla guida della Popolare di Bari. Storie che hanno segnato per sempre il mondo delle popolari.

Se per le banche venete intervenne Intesa, per Bari non si vede ancora la fine del tunnel. Anche a dispetto del prezzo altissimo pagato da 66mila azionisti: l’azzeramento dei titoli. Con appena 10mila soci che, durante il commissariamento, hanno transato a 2,38 euro per azione contro i 9 antecedenti al tracollo. E ancora 800 contenziosi aperti. Il salvataggio in extremis è stato affidato al Fondo interbancario di tutela dei depositi che ha sborsato 1,2 miliardi nel 2020. Successivamente è dovuto intervenire anche il gruppo pubblico Mediocredito centrale con un aumento di capitale da 430 milioni. Per un totale di 1,6 miliardi. Un investimento che affidava ad Invitalia, attraverso Mediocredito, l’incarico di creare una nuova banca per il Sud, mai realmente partita.

Fra i big del settore sta infine passando di mano Carige per la creazione di un terzo polo bancario sotto la regia di Unipol. La banca genovese sembra ormai destinata a Bper di cui la compagnia assicurativa detiene quasi il 19 per cento. Il Fondo interbancario, che ha l’80% di Carige, ha concesso alla banca modenese un’esclusiva di un mese per arrivare ad un’offerta definitiva entro il 15 febbraio. Al momento Bper ha chiesto al fondo una dote finanziaria da 530 milioni a fronte del pagamento di un euro simbolico. Se l’operazione andrà in porto, la banca modenese dovrà poi lanciare un’offerta pubblica di acquisto sul mercato al prezzo di 80 centesimi per azione. Se tutto filerà liscio, si chiuderà così una vicenda iniziata con il crac della banca genovese del 2013. A far emergere delle irregolarità sui prestiti furono due ispezioni di Bankitalia. Da allora iniziò una lunga battaglia per il controllo della banca genovese finita poi sotto il cappello del Fondo Interbancario attraverso un aumento di capitale da 700 milioni. Una cifra enorme che il Fondo è stato successivamente costretto a svalutare fino ad arrivare ad un valore contabile da 103 milioni. Segno che la valutazione della ricapitalizzazione era stata molto generosa.

Il terremoto che ha stravolto il settore ha insomma decisamente lasciato i segni. Così un sistema che nel 2014 contava 35 gruppi con attivi per centinaia di miliardi è oggi un insieme di 19 banche con asset totali attorno ai 40 miliardi. E con ancora i conti da fare con i crediti inesigibili in pancia e l’impatto della pandemia tutto da misurare. Non a caso l’autorità bancaria europea (Eba) ha allertato i governi del Vecchio continente sugli effetti dell’emergenza sanitaria sui bilanci bancari di ogni dimensione. Intanto “la desertificazione dei servizi bancari dimostra che le banche del territorio hanno ancora un grande compito che nessuna altra banca può svolgere”, ha detto a Mf, Corrado Sforza Fogliani, presidente Assopopolari, lo scorso 4 gennaio. A patto di recuperare la fiducia dei piccoli risparmiatori nel sistema. Il che non è affatto facile né scontato.

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