di Ilaria Muggianu Scano

I retroscenisti di Palazzo, davanti alla levata di scudi in favore di un’elezione femminile al Quirinale (sì, genericamente femminile), ringraziano che l’Italia non sia una repubblica presidenziale. Pur senza raggiungere simili gradi di rigidità in un paese civile in cui la donna si stalkera, si demansiona, si uccide, un’elezione femminile al Colle avrebbe una rilevante carica simbolica.

Ciò che perplime è, tuttavia, la rincorsa a nomi del tutto avulsi dalla matrice politica. Perché l’evocazione di neofite della cosa pubblica? Cui prodest? Ma soprattutto, è necessario? Davvero non esiste alcuna donna in grado di coagulare consensi di gruppi e partiti? Partiamo dai numeri. Saranno 1.009 gli elettori chiamati a proclamare il capo dello stato: 321 senatori, 630 deputati e 58 delegati regionali, tre per ogni Regione, eccetto la Valle d’Aosta che ne ha uno. Per essere eletti occorrono 630 voti che corrispondono ai due terzi dell’Assemblea nei primi tre scrutini; dal quarto ne bastano 505, la maggioranza assoluta.

È il momento storico in cui le parlamentari sono più numerose: 339 donne che se avvertissero la necessità epocale di un’espressione femminile della massima carica dello Stato, potrebbero costituirsi partito, per così dire, giocando un ruolo determinante. Nessuna prospettiva, ad oggi, appare più concreta e i numeri parlano dell’eventualità di un capo del governo donna infinitamente più tangibile dell’ondata femminista degli anni ’70, storicamente più decisa e radicale di sempre. Una Presidente espressione di controllo e rappresentanza, che operi nell’interesse extrapartitico di ogni cittadino, che incarni il bisogno di coesione e il desiderio di rinascita di un Paese in ginocchio, avvilito da crisi economica e tragedia pandemica, non sarebbe una novità per una nazione che ha avuto Nilde Iotti.

Nilde Iotti proveniente dall’universo politico del Partito Comunista, non dalla letteratura, dallo spettacolo, dall’economia o dall’ambito scolastico o sanitario. Uniquique suum tribuere, verrebbe da dire. Se è giusto pretendere che unione e unità morale e istituzionale siano finalmente dettati da una donna, è altrettanto lecito chiedersi perché i nomi femminili perdano legittimazione se appartenenti alla nomenclatura tradizionale. La generazione di un nuovo tabù. L’elezione di un’outsider decreterebbe certo sensazionalismo nel breve periodo e l’occhio di bue del sistema Europa, ma a uno sguardo lungimirante, pianificatore e dotato di visione, è probabilmente proprio l’attingere al caravanserraglio di scaturigine politica che potrebbe essere un segnale forte e l’auspicio di una prospera stagione di impegno femminile nelle istituzioni.

Quali sono dunque i nomi delle candidate tecniche a infrangere il tetto di cristallo e che fanno storcere il naso ai bookmaker più scafati, oppositori del “purché sia femmina”? Tra gli altri nomi: l’astronoma Alessandra Celletti, l’astrofisica Simonetta di Pippo, la fisica Fabiola Giannotti, la biologa Elena Cattaneo, l’esperta di Economia Annamaria Tarantola, la rettrice della Sapienza Antonella Polimeni, la direttrice dei musei vaticani Barbara Iatta, Annamaria Loreto procuratore capo di Torino, Daniela Ducato imprenditrice esperta di economia sostenibile. Ma ciò che ci si chiede è se i nomi coinvolti siano veramente interessati a portare il Paese fuori dal guado in uno dei momenti più critici e complessi della vicenda politica.

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