di Roberto Del Balzo

Da ogni latitudine politica e mediatica, che siano interventi lunghi un respiro nei vari talk televisivi oppure un po’ di inchiostro che arriva da una penna annacquata – che si raddrizza in un rigurgito di orgoglio incidendo la carta con quel desiderio di distinguersi almeno una volta nella vita – in molti ricorrono a quelle due parole, ovvero pensiero unico, per indicare la condizione del giornalismo italiano e in generale dell’impalcatura costruita giorno dopo giorno durante questo tempo di pandemia dal governo, dai media e da quell’esilarante mondo dei social.

Il filosofo ci annuncia che più che dell’immunità di gregge tanto decantata è rimasto solo il gregge, un popolo belante, neppure troppo, davanti alla beatificazione del presidente del consiglio e delle scelte che ha fatto e che farà. Guardando a destra un nutrito gruppo di giornalisti e opinionisti (filosofo incluso) raglia ormai quotidianamente sulla pochezza dei vaccini, sulla mancanza di chiarezza delle regole, sullo stordimento dei numeri di morti e contagiati dichiarati ogni giorno che Dio ha messo in terra, sull’utilità delle mascherine e via discorrendo. È tutto un fastidio che mette il cappio intorno al collo della libertà individuale.

Ma questo, anche se lo dicono tutto il giorno, sembra che non possa essere argomento di discussione perché la “narrazione” è sempre quella, portata sulle spalle come una divinità dai “giornaloni”: c’è solo un mantra di numeri, di pericolo, di azioni e obblighi da seguire, un continuo e incessante invisibile megafono che condiziona con metodi di controllo sociale i nostri comportamenti, il “controllo d’alto” (coniato del filosofo, sì sempre un filosofo, Danilo Campanella).

Dall’altra parte, basta cambiare canale oppure comprare qualche quotidiano diverso e lo stesso lamento disperato arriva sotto altre forme: “è un governo di padroni” che disgrega e non aggrega, impoverisce gli italiani senza contraddittorio, senza discussione, così è (se vi pare). La realtà dà i suoi morsi e lascia il segno ma non si può dire, non si parla al manovratore mentre guida e intanto qualcuno non alza più la saracinesca o riceve via mail il benservito. È tutto un politicamente corretto, le carezze sono sempre date dal verso giusto, non si può parlare, non si può avere un tono diverso. Di quel gregge non si può essere la pecora nera e neppure grigia, tutto è modellato e plasmato affinché non ci siano voci stonate.

Ecco, in un ribaltamento istantaneo, quasi come girare una clessidra, scopriamo però che tutti possono dire tutto ovunque, da uno schermo in alta definizione, nei giornali e in quel mondo, sempre esilarante va ricordato, dei social. Eppure ancora il “pensiero unico” domina e non permette una visione diversa, un pensiero laterale. La democrazia, o quella debole superstizione che ne rimane, è soffocata col cuscino del racconto istituzionale. A prescindere dalla pandemia ovviamente. In parte è vero, come vero è il fatto che andare a votare diventa quasi una gita nel weekend visto come cambiano i governi anno dopo anno. In questo caos e mondo di contraddizioni rimane sempre lui, “il pensiero unico”, riflesso all’infinito in due specchi messi uno di fronte all’altro, certamente uno a destra e uno a sinistra.

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