di Maurizio Malo*

Com’è ben noto, la Costituzione espressamente reca pochissimi requisiti di eleggibilità alla carica di Presidente della Repubblica: essere cittadino italiano, aver compiuto cinquant’anni d’età e godere dei diritti civili e politici (art. 84 Cost.). Pertanto, solo una persona interdetta o inabilitata (artt. 414 e seguenti, codice civile), o condannata con sentenza irrevocabile alla pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici (artt. 28, 29 codice penale), non è eleggibile, in base a tali requisiti.

Ai requisiti espliciti vanno però aggiunti quelli che potremmo intendere come requisiti impliciti, di ‘etica costituzionale’, si potrebbe dire. In estrema sintesi, chi della Costituzione è “il supremo tutore” (l’espressione volta a definire il ruolo del Presidente della Repubblica è del grande Maestro del diritto pubblico, Costantino Mortati) deve amare autenticamente la Costituzione: i principi, i valori che essa contiene.

La carica di Presidente della Repubblica si addice quindi a chi più credibilmente incarna tali principi e valori, facendone costante, assidua guida per la propria vita, “pubblica e privata”. Il valore della coesione sociale, che implica uno stabile impegno teso alla riduzione di ingiuste differenze, la propensione verso l’altruismo piuttosto che verso l’egoismo, l’attenzione per il prossimo, la cura e lo sviluppo dei beni comuni.

Il valore della rettitudine e della trasparenza personale, che non ammette di appellarsi alla tutela della riservatezza come scudo per coprire “opacità private” (la “doppia morale” non è in sintonia con l’ideale costituzionale).

Il valore dell’intervento pubblico costante, normale (non solo in momenti eccezionali) al fine di affermare uno sviluppo economico equilibrato, rispettoso della dignità delle persone e dell’ambiente (i principi costituzionali in materia economica sono chiari in questo senso, e quindi escludono in radice ogni eventuale “ricetta” puramente liberista).

Il valore della adeguata rappresentatività del Parlamento in relazione alla autentica consistenza delle forze politiche nel Paese, in termini di consenso: il Parlamento quale sede fondamentale di esercizio della sovranità popolare.

Il valore della indipendenza di giudizio degli organi giurisdizionali, non influenzabili o dominabili da organi di indirizzo politico o da potentati di vario genere. Il valore della “cosa pubblica”, nelle sue molteplici declinazioni, da sentire autenticamente come bene comune, di interesse prioritario: scuola, università, beni culturali, ospedali, trasporti, parchi, forze dell’ordine, insegnanti, funzionari, assistenza alle persone anziane o comunque in difficoltà, protezione civile, promozione delle “imprese sostenibili” e del “lavoro gratificante”.

Il valore dell’unità del Paese, pure con il favore per ogni forma di autonomia delle istituzioni locali, come aspetti sociali naturali. Chi ammicca alla secessione mai potrebbe degnamente coprire la carica di Presidente della Repubblica. Anzi, l’unità andrebbe vissuta già come sentimento e come punto d’orgoglio personale, nella consapevolezza che fanno parte della propria, ricca identità culturale sia un verso di Salvatore Quasimodo che un brano di Cesare Pavese; sia il gotico lombardo che il barocco leccese.

Quindi, la questione della legittimazione ad essere eletto Presidente della Repubblica non si risolve con la mera verifica dei requisiti giuridici; essa comprende una verifica assai profonda e fondamentale relativa alla dignità, alla “meritevolezza costituzionale” della persona rispetto alla più alta carica, valutando il complessivo percorso della sua vita secondo i principi e valori costituzionali, al fine di eleggere chi potrà poi giurare con dignità (sua e del Paese): “Il Presidente della Repubblica, prima di assumere le sue funzioni, presta giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione dinanzi al Parlamento in seduta comune” (articolo 91 della Costituzione).

* docente di diritto pubblico-costituzionale, Uni Padova. Presidente della associazione Viva la Costituzione

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