Per la prima volta dall’inizio della stagione risuona la parola che fa tremare i presidenti: lockdown. Che per il pallone significa fermarsi, spalancando una voragine nel calendario e nei conti dei club, o comunque giocare con gli stadi chiusi, che pure equivale a un danno milionario quasi incalcolabile per chi si trova già alla canna del gas. A far sprofondare il calcio italiano nei suoi peggiori incubi è stata una telefonata del premier Mario Draghi al numero uno della Figc, Gabriele Gravina. Cordiale, ma al contempo minacciosa (per la Serie A più che per la Federcalcio, che è solo il rappresentante istituzionale). L’antifona è chiara: regolatevi voi, altrimenti ci penserà il governo. E dire che proprio su Draghi, sulla sua determinazione a tenere aperto il Paese e non affossare ulteriormente l’economia – già mostrata in altri settori – il calcio italiano faceva il massimo affidamento per andare avanti nonostante la risalita dei contagi. Pochi giorni fa, ad esempio, il premier non aveva raccolto in consiglio dei ministri l’idea di Roberto Speranza di fermare il campionato: il ministro della Salute, che guida l’ala rigorista della maggioranza, l’aveva buttata lì nell’ultima riunione di Palazzo Chigi. Quasi una boutade, più che una vera proposta, che non aveva avuto alcun seguito, nemmeno a livello di discussione. Tanto da non portare nemmeno ad un’ulteriore riduzione della capienza degli impianti, sempre fissata al 50%. Cosa è cambiato allora in pochi giorni?

La risposta è semplice: lo spettacolo desolante dell’ultima giornata, di cui si sono accorti tutti i tifosi, e che non è passato inosservato nemmeno agli occhi di Draghi, che del pallone non si cura più di tanto, finché non gli crea troppi problemi. Il teatrino indecente con le Asl, tirate per la giacchetta da più di un presidente, in privato sollecitate a intervenire per non giocare e poi attaccate in pubblico addirittura con la minaccia di impugnare i provvedimenti al Tar. I tre giocatori del Napoli mandati in campo contro la Juventus nonostante fossero stati quarantenati, un messaggio che – al di là delle differenti interpretazioni sui protocolli applicabili ai calciatori – proprio non può passare in un momento così delicato. E poi, forse più di tutto, le immagini degli spettatori ancora accalcati sulle tribune e con le mascherine spesso abbassate, nonostante il nuovo obbligo di Ffp2 e di disposizione a scacchiera: un tema, quello del distanziamento non rispettato, su cui già il Cts aveva sollevato più di una volta le sue rimostranze, e su cui non è cambiato nulla. Adesso basta.

Suona un po’ così la telefonata di Draghi, che viene descritta come un invito a prendersi una sorta di “pausa di riflessione”: un periodo di 2-3 settimane in cui la Serie A decida autonomamente di chiudere gli stadi o proprio di fermarsi, per senso di responsabilità. Il problema è che la Serie A non ci pensa nemmeno, infatti al termine dell’assemblea odierna ha ribadito “con fermezza la fiducia di poter proseguire lo svolgimento delle proprie competizioni come da programma”. I presidenti anzi erano convinti che l’incontro convocato per mercoledì 12 gennaio con Coni, FederCalcio, la sottosegretaria allo Sport Valentina Vezzali e altre discipline, sarebbe servito a risolvere i suoi problemi: in particolare a mettere in riga le Asl e trovare una direttrice a cui uniformare i vari provvedimenti di quarantena, per permettere alle partite di disputarsi. Ma a questo punto è chiaro che l’orientamento del governo è diverso, e la situazione sarà molto più complicata di così per il pallone. Anzi, sarebbe meglio dire per la Serie A, visto che tutti i tornei minori si sono già fermati, e non riprenderanno prima del 20 gennaio, con un possibile ulteriore slittamento a fine mese.

Il massimo campionato no, perché non può permetterselo. Come già visto in passato, il calendario è intasato all’inverosimile, considerando che a giugno ci saranno anche gli impegni della nazionale: infatti, nonostante lo smottamento degli ultimi giorni, la Lega ha sempre rifiutato categoricamente di rinviare il turno; comunque meglio recuperare quattro partite (e altre tre ce ne saranno domenica) che l’intera giornata. E poi c’è un altro tema: i presidenti preferiscono farsi fermare dal governo, per poi poter avanzare pretese di ristori. Ma anche questa è una pura illusione, perché al di là di qualche generosa deroga fiscale, il calcio non ha mai ricevuto e mai riceverà risorse a fondo perduto dallo Stato. Per questo l’ipotesi più verosimile resta un ritorno alle porte chiuse, da capire quando e per quanto tempo. Senza dimenticare che, con questo numero di contagi e quarantene, potrebbe esserci uno stop di fatto (con sempre più gare rinviate) anche senza una pausa ufficiale. L’incontro di mercoledì si annuncia sempre più decisivo. In serata, poi, è prevista la finale di Supercoppa tra Inter e Juventus: chissà se con o senza pubblico, ammesso che si giochi davvero.

Twitter: @lVendemiale

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