Per le carceri italiane il 2021 si è chiuso insieme ai lavori della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario messa in piedi dalla ministra Marta Cartabia e presieduta dal professor Marco Ruotolo, che rispettando perfettamente i tempi di lavoro ha consegnato la sua preziosa relazione finale nei giorni scorsi.

Il carcere in generale fa poca notizia e al carcere si dedicano pochi pensieri. Gli ultimi non sporadici, istituzionali e strutturati, che in Italia gli sono stati dedicati partivano dalla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che nel 2013 ha condannato il nostro Paese per i trattamenti inumani e degradanti che infliggeva alle persone detenute in istituti sovraffollati e dalle condizioni di vita indegne. Furono i giudici della Corte di Strasburgo a imporre alle autorità italiane una stagione di cambiamenti nel sistema penitenziario. Se entro un anno l’Italia non avesse migliorato sensibilmente le condizioni delle proprie carceri, scrissero nella sentenza Torreggiani, sarebbero tornati a condannarla in ciascuno dei migliaia di ricorsi analoghi che pendevano sulle loro scrivanie, costringendola al pagamento di somme esorbitanti.

Il Governo italiano reagì con prontezza e intelligenza. Attraverso una serie di interventi tanto normativi quanto amministrativi, portò la popolazione detenuta a diminuire di circa 15.000 unità in pochi mesi (dimostrando ancora una volta come il carcere venga utilizzato ben al di là delle reali necessità), la vita interna a migliorare sensibilmente, gli strumenti di garanzia nelle mani dei detenuti a farsi più efficaci. Gran parte degli interventi effettuati aveva una valenza di sistema, non voleva limitarsi a tamponare l’emergenza del momento ma sperava di cogliere l’occasione per guardare a un modello di detenzione più rispettoso della Carta Costituzionale.

Ma poi le cose andarono diversamente. I numeri tornarono a salire, la vita interna tornò sempre più a svolgersi nell’ozio forzato di una cella, il tentativo di introdurre un cambiamento organico nella legge penitenziaria fu enormemente depotenziato a causa delle troppe paure di perdere consenso.

Adesso abbiamo una nuova occasione. Adesso si è tornati con pensieri strutturati e non sporadici sul tema del carcere. E stavolta non sono stati i giudici, bensì piuttosto la politica, a dare avvio al tentativo di una stagione riformatrice. E questa è tutt’altra cosa. Non una sentenza ma un’idea di pena, un’idea di società, una prospettiva di orizzonte a tutto tondo. Questa può e deve guidare i cambiamenti. Marta Cartabia vuole proporre oggi un modello ideale – che la Commissione Ruotolo ha magistralmente interpretato – e non già una via di fuga da una condanna.

Se la politica è protagonista, allora possiamo farcela. Perché allora possiamo davvero agire con uno sguardo a tutto campo. Uno sguardo che non può fermarsi alle mura del carcere se vuole essere effettivo. Faccio un esempio: la Commissione propone l’introduzione dell’affidamento in prova di condannati con infermità psichica, detenuti portatori di patologie psichiatriche che potranno andare a intraprendere un programma riabilitativo definito dal dipartimento di salute mentale dell’azienda sanitaria locale competente per territorio. Una norma che potrà davvero mettere fine a situazioni di degrado indegne di un Paese civile e cambiare la vita a tante famiglie che oggi vivono nella disperazione.

Ma è inutile dire che la norma resterà ineffettiva se contestualmente non si rafforzerà l’assistenza psichiatrica territoriale, svuotata invece negli anni di risorse e possibilità. Lo scorso 23 dicembre un uomo di 41 anni con seri disturbi psichiatrici si è tolto la vita nel carcere di Monza impiccandosi con i lacci delle scarpe. L’avvocato ha spiegato che il carcere non era il luogo adatto per lui ma che nessuno ha trovato una comunità esterna che lo accogliesse. L’uomo era in carcere a seguito di litigi con il padre e atteggiamenti persecutori verso un’infermiera del pronto soccorso. Lo sguardo di una politica protagonista dovrà dunque guardare oltre lo stretto mondo carcerario e lavorare a cambiamenti anche esterni.

Inoltre, lo sguardo di una politica protagonista potrà cogliere le controspinte che troppo spesso si creano a livello amministrativo e orientarle diversamente. Sarebbe schizofrenico un sistema che da un lato lavora alla relazione Ruotolo e dall’altro accetta la bozza di circolare amministrativa resa nota alcune settimane fa che mira a un carcere chiuso e disciplinare. Sarebbe schizofrenico un sistema che da un lato vuole far uscire il carcere dal medioevo informatico nel quale è vissuto fino allo scoppio della pandemia – introducendo la telemedicina, stabilizzando le videochiamate, permettendo l’uso dei pc per motivi di studio o altro – nonché favorire un maggiore contatto con il mondo esterno e dall’altro accetta che, come ci viene detto dalle direzioni quando andiamo in visita alle carceri, l’indicazione dell’amministrazione sia quella di tornare alla disciplina più rigida degli anni passati.

Su uno dei principali quotidiani nazionali, l’amministrazione penitenziaria nelle scorse ore si rallegrava del dato, che commentava come una novità, per cui 15.827 detenuti, cioè il 30% del totale, lavorano. Il dato non è affatto una novità. Al 31 dicembre 2020 lavoravano 17.937 persone detenute, il 33, 61% del totale. Faccio un’altra prova e apro a caso una relazione più risalente del Ministero sull’amministrazione della giustizia, quella del 2018: leggo che al 30 giugno 2017 lavoravano 17.536 detenuti. Quel che però non si dice è che ciascuno di loro lavora magari per pochissime ore alla settimana o al mese.

Come riporta la relazione Ruotolo, “in media l’attività lavorativa pro capite non supera gli 85 giorni lavorativi annui”. Da qui, la Commissione individua una serie di interventi per potenziare l’inclusione lavorativa delle persone in esecuzione penale, tra cui l’istituzione di una struttura regionale che assicuri coordinamento organizzativo per una programmazione integrata degli interventi, in collegamento con la programmazione sociale regionale e il piano di sviluppo del territorio. Ecco: questo significa guardare oltre e ragionare in maniera complessa ed efficace.

Mario Draghi e Marta Cartabia, due dei nomi che con maggiore insistenza sono usciti come potenziali futuri presidenti della nostra Repubblica, erano insieme lo scorso luglio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, il simbolo più drammatico del fallimento di questo sistema penitenziario. Da quella visita possiamo ripartire: è la politica più alta che deve dare un senso alla pena. Affinché nessuno sia lasciato indietro e mai più un uomo con disturbi psichiatrici si impicchi ai lacci delle scarpe da solo in una cella.

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