Quando ho descritto la nostra visita al reparto Sestante del carcere di Torino, con le sue condizioni di vita di drammatico abbandono, ho raccontato anche l’incontro con M., un ragazzo di circa 25 anni dall’aria sperduta. Appena gli rivolsi la parola chiedendogli come stesse cominciò a piangere. Mi disse che aveva molta paura e voleva tanto rivedere sua madre. Diceva di non sapere perché fosse stato portato lì, mi pregava di farlo trasferire altrove.

M., portatore di una diagnosi psichiatrica, era in attesa di una diversa collocazione. Il ragazzo doveva venire accolto da una struttura di tipo sanitario, per essere sostenuto nei suoi bisogni terapeutici e socio-assistenziali. Uscita dal carcere ho telefonato alla madre, di cui M. ricordava il numero a memoria e che mi aveva dettato. La madre mi ha spiegato che M. si trovava in precedenza in carcere a Milano e che nessuno l’aveva avvisata del suo trasferimento al Sestante. Da quel giorno siamo in continuo contatto.

Oggi M. vive ancora in quello stesso carcere, spostato in un altro reparto. Sta molto meglio di quando l’ho incontrato io, ma continua tuttavia a vivere dentro una cella. La mamma spera che una comunità residenziale del territorio possa accoglierlo, affinché possa uscire dal carcere e venire accompagnato in un autentico percorso di sostegno. Mi ha raccontato però di aver avuto nelle scorse ore l’ennesimo diniego. Si è rivolta a molte comunità in Lombardia. Nessuna avrebbe detto di avere la possibilità di accoglierlo.

Ma è possibile che debba essere lei a effettuare questa ricerca, pregando porta a porta che qualcuno tenda una mano a suo figlio? Non dovrebbero essere le istituzioni ad aiutarla a individuare e realizzare il percorso migliore? Ovviamente il problema non è nelle singole comunità, dove si incontrano professionalità straordinarie, ma nel mancato potenziamento negli anni della rete territoriale di accoglienza, che si ritrova adesso del tutto insufficiente a far fronte ai bisogni. L’inclusione di M. non può e non deve avvenire a scapito di un’altra persona portatrice delle medesime esigenze.

Qualche giorno fa sono stata in visita al carcere di Vasto insieme al presidente di Antigone Patrizio Gonnella. È un istituto qualificato come Casa di Lavoro, ovvero un luogo dove alcune categorie di persone detenute, una volta terminata l’espiazione della pena, vengono rinchiuse per un certo periodo di tempo in quanto considerate ancora pericolose per la società. Molte delle persone che abbiamo incontrato a Vasto sono in realtà portatrici di gravi disagi psichiatrici. Abbiamo trovato il paradosso di una casa di lavoro dove non si può di fatto lavorare: non perché manchino le occasioni, ma perché molti dei presenti sono formalmente dichiarati inabili al lavoro in quanto pazienti psichiatrici. La direttrice si adopera senza risparmiarsi per aiutare i singoli percorsi, ma troppo spesso trova porte chiuse.

Molte delle persone internate a Vasto non hanno reti sociali, non hanno parenti che se ne facciano carico, non hanno paracaduti esterni di alcun tipo. Le strutture psichiatriche del territorio che abbiano la disponibilità ad accoglierle scarseggiano grandemente. E allora cosa fa la magistratura? Allo scadere del provvedimento che ne dichiarava la pericolosità sociale, semplicemente lo proroga. E questa è davvero la cosa più drammatica e assurda che si possa immaginare: non sono più persone pericolose, non dovrebbero più trovarsi in un carcere. Ma non c’è altro posto al mondo per loro. Non sappiamo dove metterle. E quindi restano lì. Con il rischio di ergastoli bianchi, di vite buttate via.

“Inclusione e coesione” è il titolo della quinta missione del Pnrr. Ecco: la vera inclusione è l’inclusione di tutti, nessuno escluso. Non escludiamo M. dal suo futuro, non escludiamo gli internati di Vasto dal loro. Usiamo quei soldi anche per potenziare la rete dei servizi psichiatrici territoriali.

Oggi mi appello all’istituzione penitenziaria, alle Asl coinvolte, ai servizi di salute mentale, agli operatori delle comunità e alla stessa magistratura di sorveglianza, affinché dialoghino tra di loro e aiutino la famiglia di M. a individuare un percorso per lui. M. ha tutta la vita davanti e tutto il diritto di viverla pienamente e felicemente.

Articolo Precedente

Mario attende il suicidio assistito da 16 mesi: “Io tradito dallo Stato, ci sono malati che vivono giorni interminabili di dolore nell’indifferenza”

next
Articolo Successivo

“Coltiviamo l’integrazione”: così a Perugia, Milano e Ragusa i migranti hanno un’occasione di inclusione grazie all’agricoltura – Le storie

next