A 92 anni se n’è andato Edward Wilson, un nome che non dirà gran che ai più. Wilson era uno zoologo, per la precisione un entomologo. Ha dedicato la sua vita allo studio delle formiche, di cui era specialista assoluto. Ma non si è limitato a questo. Nel 1967 ha sviluppato, assieme all’ecologo Robert McArthur, la teoria della biogeografia delle isole, un classico dell’ecologia moderna.

Wilson, inoltre, ha trattato la nostra specie come una delle tante che fanno parte della diversità biologica, e ha studiato il nostro comportamento sociale con lo stesso spirito con cui si studia… un insetto. Anche le formiche, come noi, sono animali sociali, e Wilson ha studiato la biologia delle società, inclusa la nostra, coniando una nuova parola e una nuova disciplina: la sociobiologia. Dato che siamo un’entità naturale, tutto quello che facciamo è il prodotto di un sistema naturale: noi.

Le discipline che contribuiscono alla teoria sociobiologica comprendono l’antropologia, l’etologia, e la psicologia, a cui si accompagnano zoologia, archeologia, genetica di popolazioni, sociologia, ecologia comportamentale umana e, ovviamente, la biologia evoluzionistica. Ha scritto un altro libro, che non mi risulta tradotto in italiano, intitolato Consilience: the unity of knowledge. L’unità della conoscenza… questo è stato il progetto scientifico di Wilson. Unità nella diversità.

Il giorno di Natale, a 80 anni, è morto anche Thomas Lovejoy, un altro zoologo che ha lasciato una traccia importante nel pensiero moderno. A lui è attribuita la paternità della parola “biodiversità” e a lui e a Wilson si deve il grande interesse per la diversità biologica, a partire dalla Convenzione di Rio de Janeiro che, nel 1992, identificò nell’erosione della biodiversità la minaccia più subdola per il nostro benessere. Da quelle premesse derivano tutte le azioni in difesa della natura, inclusa la transizione ecologica del Piano Nazionale di Recupero e Resilienza.

Di più non avrebbero potuto fare, Wilson e Lovejoy. Hanno preso una disciplina che appariva oramai obsoleta, la zoologia, e l’hanno fatta diventare il cardine teorico del nostro agire politico, assieme all’ecologia e alla botanica, ovviamente. Abbiamo trascurato queste discipline per decenni e il risultato è che stiamo distruggendo i sistemi ecologici dai quali dipendiamo. Sistemi fatti di piante, animali e microrganismi.

Ma un conto è far accettare da tutti concetti così elementari (dipendiamo dalla natura e se la distruggiamo allora distruggiamo noi stessi) e altro conto è riuscire a farli mettere in pratica. Wilson ha scritto anche un libro sotto forma di una lettera ad un pastore evangelico, il titolo è The Creation (il Creato, un appello per salvare la vita sul pianeta) e chiede a un’ipotetica autorità religiosa di farsi carico, presso i fedeli che la seguono, di spiegare l’importanza della Natura, del Creato… per usare parole care ai religiosi che pensano che tutto abbia avuto inizio per la volontà di un Creatore. Il libro è del 2006, nove anni prima della pubblicazione di Laudato Si’ da parte di Francesco, l’enciclica che chiede la conversione ecologica, con un appello a salvare la casa comune: il creato.

Gli argomenti di Wilson e Lovejoy sono incontrovertibili. Nessuno è così ottuso da pensare che si possa vivere in una natura devastata, e quindi sono tutti d’accordo. A parole. Quando poi si tratta di agire concretamente per fermare questo folle processo di distruzione delle premesse del nostro buon vivere, allora iniziano i distinguo. La distruzione della natura ha aumentato moltissimo il nostro tenore di vita, sia come quantità di beni a nostra disposizione sia come lunghezza della vita. Chi non vive come noi aspira a vivere come noi, e cerca di trasferirsi dove le condizioni di vita sono migliori. Paradossalmente, le cattive condizioni nei posti da cui si fugge sono dovute in gran parte alle buone condizioni dei posti verso cui si fugge. Deprediamo la natura e la distruggiamo per vivere sempre meglio, e siamo convinti che questo possa durare all’infinito. Ci importa poco dei problemi degli altri paesi. Magari ci liberiamo la coscienza con una donazione a qualche organizzazione umanitaria.

Wilson, nell’ultima parte della sua vita, ha addirittura proposto di difendere almeno metà del pianeta dai nostri impatti. Modestamente, vista la disparità delle stature scientifiche, mi permetto di dissentire. Dobbiamo difendere tutto il pianeta dai nostri impatti! Metà non basta. Anche perché gli impatti sono globali. Abbiamo spostato le produzioni più inquinanti in altri continenti, soprattutto in Asia. Ma alla fine quelle attività, pur non avendo inquinato direttamente l’aria che respiriamo, hanno alterato il clima a livello planetario. Non possiamo pensare che basti proteggere metà del pianeta mentre si devasta l’altra metà. Dobbiamo cambiare radicalmente i nostri sistemi di produzione e consumo in tutto il pianeta.

L’Unione Europea, per esempio, con la Direttiva Quadro della Strategia Marina, ha identificato undici descrittori di buono stato ambientale basati sulla conservazione di biodiversità ed ecosistemi (seguendo le idee di Wilson e Lovejoy). L’obiettivo è di ottenere il buono stato ambientale in tutte le acque europee, non solo in metà di esse. La data fissata per l’ottenimento di quell’obiettivo è il 2020. Non è stato raggiunto e ora la Commissione ha intrapreso la Missione Healthy Oceans, Seas, Coastal and Inland Waters. Prima o poi, forse, le idee di Wilson e Lovejoy troveranno concretezza. Nell’interesse della nostra specie. La natura, non temete, se la caverà benissimo.

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