di Susanna Stacchini

La mia è una storia di violenza, iniziata moltissimi anni fa e finita solo di recente, con la speranza che non si tratti di una semplice tregua. Anche la vicenda giudiziaria si è protratta per ben dodici anni, durante i quali nulla è cambiato nel comportamento del mio persecutore.

Nonostante la paura, le continue umiliazioni, sofferenze, frustrazioni, ho sempre cercato di non mollare, combattendo con tutta me stessa uno stalker, un pregiudizio da medioevo e una giustizia colabrodo a misura di delinquente. Riscattarmi era per me un bisogno vitale, volevo a tutti i costi permettere ai miei figli di essere comunque orgogliosi della loro madre. Non ce l’avrei fatta a sopportare un nulla di fatto finale, anche se ero consapevole di correre seriamente questo rischio, considerato il paese dove vivo, l’Italia.

Ho fatto una ventina di denunce per stalking, dalle quali sono scaturite misure cautelari di divieto di avvicinamento, spesso disattese, un arresto domiciliare, anch’esso non pienamente rispettato, e tre processi. È stato un vero calvario. Udienze rinviate a ripetizione a distanza di oltre un anno, dovendo soggiacere a motivazioni evidentemente faziose ma inappellabili. Notifiche non ritirate, confusione creata ad arte sul domicilio legale, cambi di avvocati all’ultimo momento, legittimi impedimenti evidentemente fasulli e infondati ricorsi in appello. E considerato che tutto questo si consumava all’interno del perimetro della legge, è stato ancor più sconcertante e inaccettabile.

Troppo di frequente ho percepito lo Stato “complice” del mio aguzzino che intanto perseverava indisturbato, nella sua condotta criminale, incurante di tutto e tutti, certo della sua impunità. Anche le sentenze di condanna che cominciavano ad arrivare erano per lui medaglie al valore. Così molti, moltissimi, sono stati i momenti in cui mi sono sentita davvero persa. L’angoscia saliva e il pentimento per la scelta fatta pure. Ma passato lo sgomento, riprendevo ad occuparmi in prima persona dei miei processi, facendo il massimo di ciò che mi era consentito, in una vera e propria lotta contro il tempo, considerato che il rischio prescrizione si faceva sempre più concreto.

Alla fine, anche se tardivamente, le cose hanno preso il giusto verso. A distanza di dodici anni dalla mia prima denuncia, i processi sono terminati tutti con sentenza di condanna passata in giudicato e lo stalker è finito in carcere. Ma questo epilogo, logico in uno Stato normale, da noi diventa un’anomalia. Qualcosa di incredibile, di eccezionale insomma: per noi è troppo.

Si assiste quasi assuefatti ai continui tentativi spesso ben riusciti da parte dei politici di ostacolare il lavoro della magistratura, allo scopo di sottrarsi ai processi, confondendo l’immunità con l’impunità. Addirittura, si dibatte sull’ipotesi di Berlusconi Presidente della Repubblica, come fosse una cosa normale. Non è così. Ricordate il bunga bunga? Il messaggio che arriva è urticante e offensivo per tutti e, per le donne nella mia situazione, è vittimizzazione secondaria in piena regola. È un affronto insopportabile, l’ennesima mazzata.

Ma a differenza delle altre questa mi ha indotto a chiedermi seriamente e con estremo rammarico che cosa ci faccia in carcere l’uomo che mi ha rovinato la vita. Ed è semplicemente assurdo. Se dopo aver sempre considerato ciò per cui ho lottato una battaglia di civiltà e giustizia mi ritrovo a pormi una domanda del genere, è evidente che qualcosa non torna…

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