Per fare un buon melodramma non basta la bella musica. Ci vuole un libretto che condensi un soggetto stimolante di suo, desunto perlopiù da un dramma, una novella o un romanzo. Giuseppe Verdi non sfugge alla regola. Sul finire degli anni ’60, il Maestro esaminò con Camille du Locle, librettista e impresario, alcuni soggetti degni di attenzione: tra di essi, Adrienne Lecouvreur di Eugène Scribe e il Tartuffe di Molière. Da questo lavorìo non scaturì però alcun progetto.

Nel novembre 1869 accadde un fatto singolare: Isma’il Pascià, kedivè d’Egitto, progettò la costruzione di un teatro d’opera, nell’ambito dei festeggiamenti per l’apertura del Canale di Suez; e invitò Verdi a comporre un’ode per l’occasione. Il musicista declinò: rispose che non era sua abitudine comporre pezzi di circostanza. Ma il kedivè teneva al suo arco una buona freccia: al suo servizio si trovava Auguste Mariette, egittologo insigne, che aveva lavorato dapprima al Museo del Louvre e si era poi stabilito in Egitto. Costui diceva di possedere un soggetto egizio adatto a un’opera teatrale: attraverso Du Locle andò in cerca di un compositore. Oltre a Verdi, pensava anche a Gounod o a Wagner. Du Locle era però convinto che bisognasse insistere con Verdi. E così fece.

Il Maestro, conosciuto il soggetto, accettò senza indugio: “Ho letto il programma egiziano. È ben fatto; è splendido di mise en scène, e vi sono due o tre situazioni, se non nuovissime, certamente molto belle”. Pretese un prezzo molto alto, 150 mila franchi; avrebbe pagato di tasca sua il libretto e anche il direttore per il Cairo. Du Locle si stabilì per un po’ a Sant’Agata, residenza di Verdi, e lì approntò, col Maestro, un libretto in francese in prosa. Per la verseggiatura Verdi scelse il letterato e poeta Antonio Ghislanzoni (1824-1893). La cosa era dunque ben avviata.

L’editore Giulio Ricordi era al settimo cielo: “…tanta è la mia soddisfazione e allegrezza che ancora mi domando se non è un sogno! …e fortunatamente non lo è!”. Nella stesura italiana del libretto Verdi aveva inserito indicazioni per la musica, cantabile, concertato, recitativo eccetera; e aveva avviato ricerche sull’antico Egitto; idea tutta sua fu la famosa sortita di Radamès, Celeste Aida. Resta il ricco carteggio con Ghislanzoni: il tono del Maestro è deciso ma rispettoso, data la stima ch’egli nutriva per il letterato. Interveniva però in termini categorici là dove giudicava i versi poco “teatrali”: “I personaggi non dicono sempre quel che devono dire”; “parmi altresì che la parola scenica non vi sia, non salta fuori netta ed evidente come dovrebbe”. E poco dopo: “Non so se io mi spiego dicendo ‘parola scenica’; ma io intendo dire la parola che scolpisce e rende netta ed evidente la situazione”. Usata da Verdi a proposito dell’Aida, questa locuzione, che allude all’esigenza di una lapidaria sintesi verbale, è poi stata eretta dalla critica a quintessenza dell’intera drammaturgia verdiana. Alcune difficoltà sorsero, per varie ragioni, nella formazione della compagnia: alla fine vennero scritturati il mezzosoprano Eleonora Grossi, il soprano Antonietta Pozzoni, il tenore Pietro Mongini. Direttore fu Giovanni Bottesini, valente compositore e celebre virtuoso di contrabbasso.

Nel frattempo, il 1° novembre 1871 a Bologna, annunciato con gran clamore, andava in scena per la prima volta un dramma musicale di Richard Wagner, Lohengrin. Verdi assistette a una recita, apprezzò parecchi aspetti, ma ne criticò certe prolissità musicali e la generale lentezza dell’azione. Lo infastidì inoltre il battage pubblicitario, le “Lohengrinate” – così le chiamò – dei fautori di Wagner. Una punta d’invidia da parte dell’operista italiano? Non è probabile. Era il carattere schietto di Verdi, il suo orgoglio di musicista. Lo conferma il fastidio ch’egli manifestò all’influente critico Filippo Filippi, che, invitato al Cairo per l’Aida, si era offerto di mettersi a disposizione come portaparola del Maestro durante le prove dell’opera: “A me pare che l’arte in questo modo non sia più arte, ma un mestiere a cui si corre dietro, a cui si vuol dare, se non il successo, almeno la notorietà ad ogni costo! Il sentimento che io ne provo è quello del disgusto, dell’umiliazione!”.

Aida andò in scena al Cairo il 24 dicembre 1871 con gran plauso. Verdi, che non presenziò alla “prima”, fu insignito del titolo di Commendatore dell’Ordine Ottomano. L’8 febbraio 1872 l’opera fu data in trionfo alla Scala, e poi nei maggiori teatri del mondo, Buenos Aires, New York, Berlino, Vienna, Pietroburgo, Londra, fino ai successi parigini del 1876 e del 1880. Successo da allora mai tramontato, neppure nell’era paranoide della cancel culture, che pretende di vederci l’impronta dell’imperialismo e del colonialismo.

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