È il 1981 quando i Centers for Disease Control and Prevention segnalano un inspiegabile aumento di polmoniti in giovani omosessuali. Ed è per questo che oggi si parla dei primi 40 anni dell’epidemia innescata dal virus Hiv, isolato e identificato tre anni dopo da Robert Gallo. Sono molti i traguardi raggiunti nelle cure, ma anche tanti e nuovi problemi nella gestione di una piaga sanitaria che ha fatto in tutto 45mila vittime solo in Italia e 35 milioni nel mondo. Nella Giornata mondiale contro l’Aids che cade il 1 dicembre si celebra la anche la necessità di perseguire tutti gli obiettivi fissati: il primo dei quali è sconfiggere l’epidemia entro il 2030.

“Da quando il virus Hiv è stato identificato per la prima volta nel 1984, ha causato più di 35 milioni di morti” nel mondo, rendendo quella di Aids “una delle pandemie più distruttive della storia“. E mentre “l’attenzione del mondo è concentrata su Covid-19, non possiamo dimenticare” questo “altro virus mortale che ha devastato vite e comunità per quasi 40 anni” dice Hans Kluge, direttore regionale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per l’Europa, che insieme al Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc) ha diffuso un report.

“Negli ultimi anni molti Paesi della regione europea hanno lavorato per aumentare i test e le cure” contro l’Hiv, “affrontando” anche il problema dello “stigma sociale. Ma i nuovi dati raccolti dall’emergere di Covid dipingono un quadro preoccupante, suggerendo che molte persone con Hiv non vengono diagnosticate in tempo e questo – avverte il direttore – potrebbe avere conseguenze a lungo termine sulla loro qualità di vita”. “Mentre continuiamo ad affrontare la pandemia di Covid-19”, esorta dunque Kluge, “dobbiamo rimetterci in carreggiata nella nostra lotta contro l’Hiv/Aids. Stigmatizzazione, discriminazione e disinformazione intorno a questo virus sono ancora troppe, con enormi disparità nella diagnosi e nel trattamento all’interno della regione europea. Insieme – è l’auspicio – possiamo porre fine all’Aids entro il 2030″.

I problemi del presente sono per certi versi ancora più subdoli di 40 anni fa quando non c’erano cure. E in Italia si declinano in sei casi su dieci di malattia diagnosticati in ritardo, in un aumento delle donne italiane infettate dal virus e in un aumento degli ‘insospettabili’ contagiati, dai professionisti agli studenti universitari. Il problema della diagnosi precoce – da cui dipendono cure tempestive ed efficaci – resta spinoso più che mai da quando si sta fronteggiano l’emergenza Covid.

Infatti, il Sars Cov 2 ha fatto ‘chiudere’ tanti ambulatori di malattie infettive durante i lockdown. Mai però quello del Policlinico Gemelli di Roma che è rimasto sempre aperto, anche per le persone con infezione da Hiv/Aids. Non a caso “da marzo 2020 ad aprile 2021 – ricorda l’infettivologa Simona Di Giambenedetto, Unità operativa complessa Malattie infettive – abbiamo diagnosticato 54 nuovi casi, un dato nettamente in controtendenza col resto dell’Italia (in tutto il 2020, le diagnosi di Aids in Italia sono state appena 1.303). La fascia d’età più interessata dalle nuove diagnosi è quella tra i 25 e i 29 anni.

L’Aids è ancora una malattia potenzialmente mortale senza un adeguato trattamento. “Non bisogna insomma abbassare la guardia- riflette l’infettivologa del Gemelli Elena Visconti – ed è necessario accettare l’idea che è una malattia di tutti e quindi, tutti quelli con comportamenti a rischio dovrebbero fare lo screening”. “Dal 1981 anno in cui i primi casi di Aids sono stati segnalati. – spiega il direttore di Malattie Infettive Roberto Cauda – sono stati ottenuti risultati straordinari consentendo di trattare con successo l’Hiv alla stregua di altre malattie croniche. Dalla ‘disperazione’ dei primi anni si è passati alla ‘speranza’ e oggi alla ‘curà”, ricorda. Ma la lotta non è ancora conclusa”.

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