di Vera Cuzzocrea, psicologa e psicoterapeuta

La cronaca ci allarma. Quotidianamente emergono scenari di violenza e di omicidi che coinvolgono le donne. E insieme i figli e le figlie, testimoni e vittime dirette. Il sentimento comune è di impotenza ma anche di rabbia, per non aver saputo intercettare, contrastare, prevenire.

In questi anni molte sono state le campagne di sensibilizzazione, gli strumenti normativi introdotti per migliorare il sistema di emersione ed offrire supporto psicologico, sociale e legale. Eppure i dati ci indicano che la maggior parte delle vittime non chiede aiuto, possiamo ipotizzare perché non si rende pienamente conto della dinamica maltrattante, per paura delle conseguenze, per mancanza di informazioni adeguate o di fiducia. Nei casi più estremi, a rischio è la loro stessa incolumità. Sempre, è il benessere futuro: possibile coinvolgimento in successive vittimizzazioni, agite o subite, vulnerabilità emotive, disturbi psicopatologici, adozione di condotte devianti e prevaricatorie, sofferenze non ristorate.

E anche laddove la condotta maltrattante venga intercettata e segnalata, non è detto che questo corrisponda ad una protezione, auto-percepita o effettiva della vittima. Perché l’azione penale non sempre riesce a restituire quel senso di giustizia e protezione di cui si ha bisogno, rimandando anzi alla vittima un vissuto di negligenza e giudizio che rischia di agire come una seconda vittimizzazione. Non sempre viene garantita effettiva protezione e intercettati i segnali d’allarme emergenti, non sempre chi incontra una vittima di violenza è adeguatamente formato per gestire queste situazioni, come peraltro evidenziato dalla Commissione Femminicidio del Senato: magistratura, avvocatura e consulenti hanno ancora molto da fare per garantire la messa in opera delle buone prassi auspicate in questa direzione.

Ebbene, cosa e quando si può fare di più?

Innanzitutto intervenire in termini di prevenzione primaria rafforzando il sistema educativo affinché formi al saper essere i nostri bambini e bambine, promuova lo sviluppo di risorse, di condotte prosociali, il riconoscimento e la gestione di emozioni e in generale contribuisca a modificare culturalmente il paradigma relazionale del “possesso”. Perché gli adulti di oggi coinvolti in queste dinamiche violente sono i bambini e le bambine di ieri che evidentemente non hanno avuto una valigia degli attrezzi sufficiente per riconoscere, fronteggiare o evitare queste modalità relazionali.

E poi migliorare il sistema di accoglienza della violenza: rafforzando le occasioni formative non solo di forze dell’ordine, specialisti e magistrati, in sede non solo penale ma anche e soprattutto civile, di quelle separazioni superficialmente ed erroneamente definite come conflittuali che invece nascondono scenari di aggressività e violenza, ma anche di insegnanti e servizi socio-sanitari. Senza dimenticare la prevenzione della recidiva: rafforzare il sistema di trattamento intra ed extra-murario di chi agisce la violenza attraverso un sistema più efficace di valutazione del rischio e presa in carico delle vulnerabilità emergenti. Ma anche rafforzare il sistema di tutela delle vittime dall’avvio dell’iter giudiziario.

Si parla della possibilità di una scorta, perché no? Perché non offrire questo tipo di protezione come per le vittime di altri reati anche prima che vengano accertati? E poi, perché non garantire – come possibile a livello normativo – che la vittima possa restare nella propria abitazione dando effettiva attuazione all’allontanamento del maltrattante senza costringerla anche a separarsi dai suoi spazi? E infine, perché aspettare che sia la vittima a chiedere un sostegno psicologico ed invece non pensare ad una delega immediata a dei servizi preposti?

Perché è lo Stato che deve andare dalla vittima e non il contrario, soprattutto in considerazione del fatto che la manipolazione psicologica agita a suo danno non sempre permette che si percepisca la gravità e il pericolo di una dinamica violenta, né da chi la subisce né dalle persone vicine: le relazioni maltrattanti non sono amori malati ma reati che pongono le vittime in una condizione di particolare vulnerabilità che ne limita la consapevolezza del danno subito e delle traiettorie di pericolo, oltre all’autoefficacia percepita individuale e collettiva rispetto a ciò che si può fare.

Perché la violenza è un problema sociale e di salute pubblica, quindi è l’attitudine responsabilizzante di ciascuno di noi che andrebbe rafforzata, come abilità da apprendere e strategie da sviluppare.

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