Ma quindi è vero o no che esiste un nucleare verde e sostenibile?

Chissà in quanti un paio di anni fa, durante la presentazione del mastodontico programma di Green Deal Europeo per far fronte ai cambiamenti climatici, avrebbero scommesso su un ritorno in auge del nucleare come pilastro della nuova politica energetica sostenibile europea.

Così, mentre esperti, attivisti, leader mondiali, attori e starlette discutevano alla Cop26 a Glasgow di come rispettare gli obiettivi prefissati già nel 2015 a Parigi per ridurre le emissioni di CO2, velocizzare la transizione e ridurre la dipendenza dai gas e fossili, la Commissione Europea ha aperto le porte al Nucleare di “ultima generazione” aggiungendogli il termine “green”, parola che va talmente di moda da perdere di significato.

L’apertura della Commissione al nucleare sorprende fino a un certo punto, considerata la debolezza politica di Ursula Von der Leyen, rimasta orfana del potente appoggio di Angela Merkel e costretta a chiedere protezione politica al Presidente francese Emmanuel Macron. Protezione che si trasforma facilmente in influenza, con il governo francese che punta forte sul nucleare e ha adesso una forte probabilità di inserirlo nella tassonomia europea.

Per chi non lo conoscesse, il regolamento sulla tassonomia mira a promuovere attività qualificabili come sostenibili creando trasparenza per gli investitori, stabilendo criteri uniformi per determinare se un’attività economica si qualifica come sostenibile per l’ambiente e/o non arrechi danno significativo (Dnsh) a nessuno degli altri obiettivi ambientali menzionati nel Regolamento.

La posizione francese sul nucleare, che cerca di influenzare la scelta della Commissione Europea attesa per fine anno (ma che si può già immaginare leggendo l’ultimo rapporto del Jrc europeo, Joint Research Centre), a oggi però non è in alcun modo supportata da alcun dato scientifico, sia a livello ambientale, che a livello di costi e tempistica.

A questo proposito, appare interessante riportare il lavoro fatto in Germania dall’Ufficio federale per la sicurezza della gestione dei rifiuti nucleari (Base) con il supporto dell’Ufficio federale per la protezione dalle radiazioni (Bfs) in cui si smonta punto per punto il Rapporto del Jrc. Sullo smaltimento dei rifiuti si spiega che non esiste ancora, in tutto il mondo, un deposito geologico profondo per i rifiuti ad alto livello in funzione. Il rapporto Jrc, inoltre, sottovaluta l’importanza dei rifiuti a bassa e media attività a vita lunga e non spiega che il “partizionamento” e la “trasmutazione” in realtà non sostituiscono affatto un deposito e, per di più, comportano rischi radiologici. Oltre a essere ben lontani da una disponibilità su scala industriale.

Per quanto attiene alla sicurezza dell’energia nucleare, va detto che anche quando l’uso dell’energia nucleare soddisfa tutte le normative, esiste sempre un rischio residuo, legato a incidenti o attacchi terroristici, che per quanto possano essere rari, hanno un impatto devastante con effetti non solo immediati (perdita di vite umane), ma a lungo termine con le annesse conseguenze sociali ed economiche. Inoltre, gli impianti nucleari quando invecchiano diventano di difficile gestione.

Per quanto riguarda l’estrazione dell’uranio, va ricordato che la maggior parte delle miniere si trova al di fuori dell’Ue e non è soggetta alla sua regolamentazione o al suo controllo. Peraltro, storicamente l’estrazione dell’uranio ha causato enormi impatti ambientali (Church Rock/Usa, Wismut/Germania). Mentre per quanto attiene alla proliferazione, l’uso militare e l’uso civile dell’energia nucleare sono stati strettamente collegati dal punto di vista tecnico e storico (double use): come tutti sanno il potenziale distruttivo delle armi nucleari mette a rischio non solo gli obiettivi di sostenibilità ma l’intera umanità.

Uno degli elementi di forza del Rapporto Jrc è il contributo che l’energia nucleare fornirebbe alla mitigazione del cambiamento climatico. Il Jrc però trascura che l’Ue ha una flotta di reattori molto vecchia (oltre l’80% raggiungerà il limite di 40 anni fino al 2030) e che la costruzione di nuovi reattori è una questione lunga e costosa. Il nuovo piano francese ad esempio spiega che i nuovi reattori non saranno pronti prima del 2038/2040, impensabili quindi che servino ad una transizione per il 2050, e a un costo previsto tra i 52 e i 64 miliardi di euro. Mentre il potenziale delle nuove tecnologie, come i piccoli reattori modulari (Smr), sembra sopravvalutato con i potenziali rischi sottostimati.

Mentre in Germania – dove sta per nascere il governo Scholz sorretto da socialisti, verdi e liberali – si continua ad essere contrari al nucleare, in Francia la polemica monta, perché il piano di Macron fa acqua da tutte le parti e prevede tempi, costi e soprattutto rischi ampiamente superiori rispetto a un massiccio piano di investimenti sulle rinnovabili.

Insomma, per rispondere alla domanda iniziale appare chiaro che il nucleare si tinge di verde solo a parole, rischiando di rientrare (insieme al gas) nella tassonomia europea e di rallentare la transizione energetica sottraendo risorse alle rinnovabili e all’efficientamento energetico.

La questione va però oltre i Macron e i Draghi di oggi, in quanto questi tra 30 anni non dovranno più rendere conto a nessuno, mentre le prossime generazioni erediteranno e dovranno far fronte alle scelte fatte oggi. Così l’Italia, tra silenzi e parole a sproposito di Roberto Cingolani, sembra voglia dar man forte alla Francia in cambio del supporto transalpino sul gas. D’altronde la posizione italiana è chiara: l’Italia vuole uscire dalle fonti fossili, ricorrendo alle fonti fossili.

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