Con l’edizione 26, ossia dopo 26 anni, il sistema negoziale delle Cop ha fatto i conti con la realtà ed è uscito, finalmente, da una sorta di metauniverso fatto tutto di meccanismi politici e da eteree quanto inconsistenti ipotesi di riduzione della CO2, ipotesi nelle quali hanno abbondato per decenni le buone intenzioni e i condizionali. Dal 1992, anno dell’assise ecologista di Rio de Janeiro, al 2020, nonostante le negoziazioni abbiamo assistito a un aumento della concentrazione di CO2 da 360 ppm ai 412,5 ppm dello scorso anno. E dire che nel 1992 a Rio era stato fissato l’obiettivo di tornare ai livelli del 1990 entro l’anno 2000. In realtà si toccarono i 372 ppm. Ma torniamo alla Cop26 appena conclusa.

Il primo bagno di realtà la Cop26 lo ha fatto con l’arrivo dell’ultimo rapporto dell’Ipcc che ha smentito l’Accordo di Parigi del 2015 – il quale fissava l’obiettivo al 2100 di 2°C con l’auspicio di arrivare a 1,5°C, valore inserito all’ultimo momento per accontentare i piccoli paesi dell’Oceano Pacifico. Ad agosto 2021, invece, l’Ipcc ha affermato secco: il mezzo grado in più fa la differenza tra la zona sicura e la catastrofe. E l’allarme dell’opinione pubblica internazionale è stato grande.

A ciò, con ogni probabilità, si deve l’inserimento, per la prima volta nella storia delle negoziazioni del clima, di una percentuale di riduzione delle emissioni coniugata con una scadenza temporale stretta, molto stretta: -45% di emissioni a livello planetario al 2030. Una novità importante quanto irrealistica se guardiamo al contesto energetico di oggi. L’80% dell’energia oggi prodotta sul pianeta è d’origine fossile ed emette CO2. E abbattere questa percentuale del 45% in nove anni è abbastanza improbabile visto che dal 1970 – cinquanta anni fa – l’utilizzo delle fonti fossili è diminuito del 7% passando dall’87% all’80% di oggi.

Questa novità è stata smentita, nei fatti, da Cina e India, che hanno bocciato l’ipotesi della neutralità climatica, ossia il 100% nell’utilizzo di fonti energetiche a emissioni zero, entro il 2050. La Cina ha voluto che la data del 2050 fosse indicata in maniera generica come “intorno alla metà del secolo”, mentre l’India ha fissato il proprio obiettivo per il 100% a emissioni zero in maniera secca al 2070, imponendo nelle battute finali anche il rallentamento sostanziale per l’uscita dal carbone. E per capire ciò bisogna leggere i dati di contesto dell’India che è una nazione popolata da 1,38 miliardi di persone, produce il 75% dell’elettricità dal carbone e ha 240 milioni di persone sono senza l’elettricità. E oltre ciò, per quanto riguarda il consumo d’elettricità procapite all’anno, l’India è a 857 kWh, contro i 4.700 dell’Italia, i 6.700 della Germania, gli 11.730 degli Usa o i 13.800 della civilissima ed ecologica Svezia. Mentre la Cina è a 3.991 kWh per abitante. Questi fatti rappresentano il secondo bagno di realtà, ed è esattamente l’indice della contraddizione intrinseca alla negoziazione climatica che non si è mai occupata abbastanza del sociale. E ora che siamo in una vera e propria emergenza conclamata, il sociale presenta il conto.

E l’India è solo il primo capitolo di questo contesto. Di sicuro seguiranno la Cina, che ha disperatamente bisogno d’energia perché se scende sotto a un aumento annuo del Pil del 5% mette a rischio la propria tenuta sociale ed economica; il Sudafrica, che ha già manifestato il proprio dissenso sull’abbandono del carbone; mentre dalle nostre parti la Polonia ha annunciato che di uscire dal carbone prima di 25 anni non se ne parla.

Il tutto in uno scenario nel quale si chiedono sacrifici a Paesi che stanno godendo solo ora dei vantaggi economici delle fonti fossili, mentre è arrivato, proprio durante Cop26, il rifiuto da parte dell’Unione Europea e degli Stati Uniti per la creazione di un fondo al quale i paesi più poveri possano attingere per rispondere alla crisi climatica. Tradotto: noi abbiamo emesso CO2 per trent’anni, nonostante gli allarmi, per produrre e sviluppare il nostro Pil – boicottando oltretutto lo sviluppo delle energie verdi a favore delle fossili – ma voi dovete fare sacrifici in nome di una situazione della quale siete solo in minima parte responsabili. E a ciò bisogna aggiungere che il 18% del Pil di India e Cina è prodotto dalle esportazioni e che quindi quasi un quinto della CO2 prodotta da loro, in realtà, è imputabile ai paesi sviluppati che questi beni li acquistano.

“Non è tra i compiti dell’Onu dare prescrizioni circa le fonti energetiche. I Paesi in via di sviluppo come l’India devono avere la loro equa quota di budget delle emissioni di CO2 e vogliono continuare l’utilizzo responsabile dei combustibili fossili”, ha detto il ministro dell’Ambiente indiano, Bhupender Yadav, che è stato appoggiato dalla Cina. Insomma il tempo delle parole rispetto al clima è finito. Ora la partita si gioca sui numeri, specialmente su quelli dell’economia. E quando si parla del portafoglio il gioco diventa duro.

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