di Luca Masi

Protagonista del dibattito mondiale, la questione climatica, spinta da scienziati ed attivisti in cima all’agenda politica globale, pone una serie di quesiti su come – di fatto – attuare i processi di cambiamento riconosciuti come necessari. Colpisce, tuttavia, la quasi totale assenza di una radicale critica o necessità di cambiamento del sistema economico tra le azioni prioritarie per il contenimento climatico.

Il capitalismo,”by design”, si fonda sullo scarto inteso in due accezioni: 1) lo scarto tangibile del rifiuto che è imprescindibile da una economia di consumo di scala e 2) lo scarto sociale dato dall’accumulazione di capitale finanziario e produttivo nelle mani del famoso 1%.

Può una revisione dell’attuale sistema economico o una sua mitigazione essere d’aiuto nella questione ambientale? Sicuramente sì per quanto riguarda il consumo: ridurre lo scarto tangibile riducendo la obsolescenza programmata di molti beni tecnologici, ad esempio, potrebbe dar vita ad una economia locale e sostenibile di “riparazione” dell’oggetto piuttosto che della sua sostituzione.

Più complicata è la riduzione dello scarto economico, giacché, se quella redistribuzione che in molti reclamiamo come giusta ed urgente avvenisse, di fatto allargherebbe il bacino di consumo e con esso lo scarto di cui prima, in una sorta di perversa eterogenesi dei fini. Quindi cosa fare? Innanzitutto analizzare cosa si vuole redistribuire? Liquidità? Risorse? Diritti?

Partiamo dalla liquidità: distribuire 2000 dollari, ad esempio, ad ogni famiglia di un paese in via di sviluppo creerebbe una impennata della domanda interna che, in mancanza di distretti produttivi locali, verrebbe coperta da multinazionali ossia agenti esterni avvezzi a politiche predatorie creando, peraltro, scarto aggiuntivo.

Risorse: molti dei paesi poveri sono invece ricchi di risorse naturali che, ancora, vengono predate con la complicità di governi corrotti e corporation senza scrupoli. Ecco: arrestare questo aspetto è un nodo centrale nel favorire crescite locali sostenibili.

Diritti? Per molte comunità locali/tribù/micronazioni i diritti sono un concetto alieno o, nella migliore delle ipotesi, in via di formazione attraverso cicli naturale ed organici di sviluppo che andrebbero assecondati evitando interventismi di sorta.

Il modello di una “prosperità senza crescita” ormai si fa strada negli ambienti economici di prestigio come enucleato da Tim Jackson, professore di sviluppo sostenibile dell’università del Surrey, nel suo volume Prosperity Without Growth: Foundations for the Economy of Tomorrow, il quale suggerisce alle nazioni occidentali di ricalibrare la propria economia dalla produzione di massa alla produzione di servizi locali come insegnamento, assistenza sanitaria ed artigianato.

Lo stesso John Maynard Keynes, nel 1930 (!), immaginava una società del 2030 dove tecnologia e investimento avrebbero incrementato la ricchezza di otto volte permettendo a tutti di lavorare al massimo 15 ore al giorno e dedicare il resto al personale benessere, in un modello a scarto ridotto. Quello che Keynes non poteva immaginare era la macelleria sociale messa in atto dagli anni 70 in poi ma di sicuro aveva ragione sul fatto “l’amore dei soldi come possesso sarà visto per quello che è: una disgustosa ossessione”.

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