Tredici indizi dimostrano come i quattro imputati del processo per l’omicidio di Giulio Regeni si siano “sottratti volutamente al processo“, nel tentativo di fuggire alla giustizia e sperare che il procedimento non venisse celebrato. È quanto rivendicato dal pubblico ministero Sergio Colaiocco, nella prima udienza del procedimento partito a Roma, di fronte alla Corte d’assise nell’aula bunker di Rebibbia, dopo quasi sei anni di scontri tra Roma e Il Cairo, depistaggi da parte dei vertici egiziani, altri omicidi e tentativi di infangare l’immagine dello stesso studente triestino, ucciso dopo essere stato rapito al Cairo il 25 gennaio 2015 e torturato dentro alla “stanza 13” al primo piano di un villino degli Anni 50 nel centro del Cairo, noto per essere una delle sedi della Nsa egiziana.

Secondo la procura di Roma sarebbero stati agenti dei servizi egiziani i responsabili dell’omicidio di Giulio Regeni: per questo motivo sono imputati nel processo il generale Tariq Sabir, i colonnelli Athar Kamel e Usham Helmi e il maggiore Magdi Ibrahim Sharif. I quattro sono a processo per sequestro di persona pluriaggravato e il maggiore Sharif dovrà anche rispondere dell’accusa di concorso in lesioni personali aggravate e concorso in omicidio aggravato.

Considerata l’assenza in Aula dei quattro imputati, spetta così alla Corte d’assise decidere sulla richiesta di nullità avanzata dalle difese (nominate d’ufficio) dei quattro imputati, per la mancanza delle notifiche. La richiesta della procura di Roma è però quella di andare avanti nel processo. Il motivo? Colaiocco ha ricostruito tutti gli sforzi fatti per eleggere il domicilio degli imputati. Un tentativo che si è però dovuto scontrare con la mancata collaborazione de Il Cairo, con ostacoli pretestuosi da parte delle autorità egiziane e con depistaggi, tutto al fine di “sottrarre al processo gli imputati“. Azioni che, secondo Colaiocco, “vanno viste complessivamente”, a partire da febbraio 2016 fino a oggi, e che sono state “poste in atto per fermare le indagini, bloccarle e per evitare il processo”. Eppure, ha ricordato il pm, “il diritto a ricevere le notifiche non può diventare uno stratagemma per sottrarsi al processo, altrimenti diventa un abuso“.

Colaiocco ha quindi ricordato come già “con l’ordinanza del giudice per l’udienza preliminare si fosse ritenuto come gli imputati avessero con certezza notizia del processo a loro carico” e come “l’assenza non dovesse bloccare il processo”. Ma non solo: “L’imputato – ha ricordato il pm – ha diritto ad avere tutte le notifiche del processo, ma anche il dovere di eleggere il proprio domicilio”. Un punto sul quale l’Egitto non ha invece mai risposto alle ripetute richieste di rogatoria italiana. “In generale su 64 rogatorie inoltrate 39 non hanno avuto risposta“, ha ricordato il pm nel corso del suo intervento.

A dimostrazione di come l’obiettivo dei 4 imputati sia stato quello di “fuggire dal processo”, in quanto “finti inconsapevoli“, Colaiocco ha citato “almeno 13 elementi”. A partire dal tentativo da parte della stessa National security Agency di negare di aver avuto un ruolo nelle torture e nell’uccisione di Giulio Regeni. Lo stesso ministro dell’Interno egiziano Ghaffar riferì di come Regeni non fosse mai stato fermato, ricostruzione che fu poi smentita poco dopo, con l’ammissione della stessa Nsa. Ma non solo. Viene ricordato, nel resoconto del pm, anche il caso della banda dei cinque rapinatori e sequestratori, morti in uno scontro a fuoco con agenti della stessa Nsa, al quale l’Egitto tentò di attribuire la responsabilità della morte di Regeni. Una pista legata alla criminalità, apparsa fin da subito come un altro evidente tentativo di depistare le indagini.

Tra gli indizi citati, Colaiocco ha ricordato anche come il colonnello Usham Helmi, ovvero uno dei quattro imputati nel processo in Corte d’assise, fosse “nel team degli investigatori egiziani che avrebbero dovuto indagare sulla morte di Regeni”, riuscito a infiltrarsi nel tentativo di “condizionare le indagini” e di come “sarà lui stesso a realizzare una serie di perquisizioni a casa della vittima”.

E poi c’è soprattutto il nodo legato ai filmati della metro: “Alle 19:51 del 25 gennaio 2016 il telefono di Regeni agganciò la cella in prossimità di una stazione al Cairo. A quel punto chiediamo alla procura egiziana di acquisire le immagini, ma questa si attiva soltanto dopo oltre 15 giorni, quando si erano ormai sovrascritte. Così la National security agency ci spiegò come in quei video non ci fossero indicazioni utili”, ha continuato il pm. Per ottenere quei video passano diversi mesi e quando vengono sottoposti a esami per estrapolare immagini, anche se sovrascritte, la Procura si accorge però di un buco di 15 minuti: “Casualmente le immagini si fermano alle 19:45 e riprendono dopo le 20.10“. Tradotto, c’erano le immagini del prima e del dopo, ma non quelle di quando Giulio, e chi era con lui, era passato per una delle stazioni della metro al Cairo.

E ancora Colaiocco ha ricordato la falsa deposizione di un testimone che raccontò di aver visto Regeni discutere con un uomo vicino all’ambasciata italiana. Una versione poi sconfessata da indagini italiane quando “i Carabinieri hanno dimostrato che a quell’ora Regeni aveva il telefono collegato al Wi-Fi di casa”. Così, un mese dopo, lo stesso testimone confessò di aver detto il falso su richiesta di un agente della National Security, “per salvare l’immagine dell’Egitto, facendo cadere la colpa sugli stranieri”.

Ma non sono le uniche evidenze del tentativo del Cairo di allontanare e nascondere la verità. La procura ha anche ricordato come sia stata omessa, sino ad oggi, la consegna all’Italia del traffico telefonico associato ai ponti ripetitori che “servivano l’abitazione di Giulio, la fermata della metro del Cairo più vicina a casa sua, il luogo del ritrovamento del cadavere”, che potevano servire a rintracciare utenze comuni, ovvero persone fisiche che potevano essere presenti in più di uno dei luoghi indicati. Inoltre il pm ha precisato come gli atti consegnati all’Italia fossero sempre “incompleti, dati in ritardo e manipolati”. Gli stessi abiti di Regeni non sono mai stati consegnati: sarebbe stato fondamentale per i riscontri sul Dna.

Il pubblico ministero ha poi ricordato come dal Cairo abbiano più volte tentato di infangare Regeni, bollando il giovane come “al servizio dei servizi stranieri”, in base a una presunta “nota dell’Interpol” che mostrerebbe come Regeni fosse passato per la Turchia e per Israele. “Una nota Interpol, chiesta per tre anni e mezzo, ma che non ci è mai arrivata. Dicono che esiste, ma non la mostrano”, ha tagliato corto il pm. Ricordando come, tra l’altro, secondo le verifiche effettuate dalla procura, Regeni non si fosse mai recato in quei Paesi nel corso di quei mesi.

Nessun nuovo elemento probatorio è stato comunque condiviso dall’Egitto dopo l’iscrizione dei quattro imputati nel registro degli indagati del processo italiano. Eppure le indagini egiziane sono andate avanti. Tanto che il 10 gennaio 2021 la procura egiziana ha fatto pervenire la sua Relazione conclusiva. Quella che per i pm italiani è una sorta di “memoria difensiva” a favore degli stessi quattro agenti imputati della Nsa.

Insieme ai tentati depistaggi e ambiguità da parte egiziane, allo stesso tempo è andata avanti l’azione diplomatica da parte dell’ambasciata italiana. Senza dimenticare le attività degli stessi esecutivi italiani che si sono succeduti che hanno continuato a portare avanti il dialogo tra il Cairo e Roma, nel tentativo di far avanzare le indagini. Lo stesso Colaiocco, così, ha definito come “significativo che oggi il governo abbia chiesto di costituirsi parte civile“. Lo stesso ex premier Giuseppe Conte, “ascoltato pochi giorni fa dall’autorità giudiziaria”, ha precisato il pm, “ha ricordato tutte le iniziative poste in essere dai governi da lui presieduti”: in particolare, nell’ultima telefonata avuta con il presidente egiziano Al Sisi, alla vigilia della conclusione delle indagini in Italia, “Conte dice di aver spiegato in modo fermo come la mancata collaborazione fosse un ostacolo per i rapporti bilaterali tra i due Paesi”. E come “ci fu un’intensa attività, soprattutto per ottenere risposte alla rogatoria e l’elezione di domicilio“. Invano. Tradotto: di fronte agli indizi citati, oltre che all’eco internazionale riscontrata dal caso Regeni e dal processo da celebrare in Italia, i quattro imputati non possono non sapere del processo, secondo la Procura, convinta appunto che, tra i depistaggi e la mancata collaborazione egiziana, i quattro alti ufficiali imputati si siano “volontariamente sottratti dal processo”.

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