E’ stato inviato ai presidenti Casellati, Fico e al ministro Franceschini l’appello sottoposto da 2000 artisti italiani per l’introduzione di un diritto al compenso per gli utilizzi in streaming della musica diffusa dalle piattaforme on demand. Tra i sottoscrittori tanti i nomi di primo piano: da Luciano Ligabue a Gianna Nannini, da Mario Biondi a Frankie hi-nrg mc, passando per Raphael Gualazzi, Fabrizio Bosso, Morgan, Mario Fargetta, Fabio Concato, Irene Grandi e tantissimi altri. Incluse l’Associazione Assolirica e ADEIDJ (Associazione delle Etichette Indipendenti di Jazz).

Ormai il bubbone dello streaming sta per esplodere. E se fino ad oggi le piattaforme hanno potuto agire favorite da sorpresa e incomprensione di alcune regole, ammantate di segretezza, oggi gli artisti hanno deciso di far sentire la loro voce. E richiedono quello che è già previsto per radio e tv, cioè i media che – almeno inizialmente – erano osteggiati proprio dai visionari del web, troppo “oltre” per riconoscere a questi medium una credibilità.

In particolare gli artisti sono preoccupati dalle scelte del governo, che al momento non ha risolto adeguatamente la situazione. Da un lato c’è il mercato dello streaming on demand che cresce continuamente, e dall’altro gli artisti che guadagnano lo 0,46% di quanto incassano piattaforme come Spotify o Apple Music. Tutto ciò mentre, come anticipato nel mio articolo precedente, nel primo semestre del 2021 i ricavi dell’industria discografica da abbonamenti streaming sono aumentati del 41%. E già nel 2020 l’81% dei ricavi totali sono maturati grazie al solo mercato digitale.

Purtroppo l’alternativa allo streaming oggi sembra non esserci. Concentrarsi solo sul mercato fisico, producendo cd o vinili senza essere su Spotify & co, significa rivolgersi ai fan conclamati o – e solo ipoteticamente – al 19% del mercato discografico. Le criticità maggiori attanagliano le cosiddette band emergenti, che difficilmente potranno avere sostegno economico da Spotify. Basti pensare che Geoff Barrow dei Portishead ha dichiarato di aver guadagnato 1700 sterline nette da 34 milioni di ascolti. Una follia.

Non è forse paradossale che le piattaforme di streaming musicali paghino tra gli 0,001 dollari (YouTube) e gli 0,005 dollari (Apple Musica, Google Play) ad ascolto? Spotify, la più visibile tra le attuali realtà del settore, si inserisce esattamente a metà, con 0,003 dollari per ascolto. Ergo: 4 dollari ogni 1000 stream, 40 ogni 10mila, 400 ogni 100mila. Quante band emergenti conoscete in grado di fare, non dico 100mila ascolti, ma 10mila? Poche. Forse è ancora più probabile, nel 2021, riuscire a vendere almeno 4 cd durante qualche live (Covid permettendo) e quindi a guadagnare una cifra simile a quella che sarebbe corrisposta con 10mila ascolti su Spotify.

Continuare ad affidarsi a vecchi modelli che vedono gli artisti quali soggetti deboli nei confronti delle case discografiche non garantisce le tutele adeguate che la Direttiva Copyright chiede siano introdotte in favore degli artisti. “Il nostro sguardo è rivolto alle istituzioni. Ci aspettiamo ora che il governo e il Parlamento ascoltino le nostre richieste e capiscano l’opportunità e la necessità di riconoscere, finalmente, il giusto ruolo alla figura dell’artista, tenendo conto anche della profonda crisi che sta attraversando la categoria. Penso ai tanti musicisti e interpreti che pur dando un contributo artistico fondamentale ai successi che sono ampiamente diffusi dalle piattaforme, non si vedono riconoscere quello che meritano. La politica su questo tema non può più girarci le spalle”. È il commento di Paolo Fresu che, insieme alla collecting degli artisti ITSRIGHT, ha promosso l’appello, nell’ambito del comune impegno a supporto della campagna europea Payperformers.

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