I familiari delle vittime del Moby Prince hanno scritto una lettera aperta al presidente del Consiglio Mario Draghi per chiedere al governo di considerare la vicenda alla stregua delle altre stragi italiane, oggetto di un recente processo di desecretazione degli atti funzionale all’accertamento delle verità ancora negate. “Leggiamo con interesse che ha avuto un incontro con le associazioni dei familiari delle vittime di stragi e che la presidenza del Consiglio ha preso in carico la guida del comitato per la desecretazione degli atti riguardanti le stesse – scrivono a Draghi Luchino Chessa e Nicola Rossetti, presidenti delle associazioni familiari delle vittime 10 aprile e 140 -. Siamo in sintonia con le sue richieste di chiarezza e giustizia, ma le chiediamo di non dimenticarsi della strage del Moby Prince e di impegnarsi a far desecretare eventuali documenti che potrebbero essere utili per comprendere cosa è avvenuto realmente nel porto di Livorno la notte del 10 aprile 1991“.

Dal gennaio 2018 i familiari delle centoquaranta vittime del Moby Prince hanno intrapreso una battaglia civile e legale contro il governo italiano per veder riconosciute le responsabilità di chi mancò di coordinare il soccorso pubblico dovuto ai loro cari, lasciati morire in ore di agonia dopo la collisione tra il traghetto in cui viaggiavano e la petroliera statale Agip Abruzzo. Questo almeno è quanto avvenne secondo la relazione finale della Commissione d’inchiesta istituita in Senato nella scorsa legislatura che ha ribaltato la ricostruzione emersa dalle inchieste giudiziarie, con le quali la vicenda era stata invece derubricata a “tragico quanto banale incidente navale” cui seguì la morte rapida, in massimo mezz’ora, di tutte le vittime. “Per un banale incidente non viene istituita una Commissione parlamentare d’inchiesta – scrivono Chessa e Rosetti al presidente Draghi – Nessuno ha prestato soccorso al Moby Prince. I nostri cari sono stati lasciati ad un destino crudele di atroce sofferenza e di morte”.

Nodo centrale del caso è quindi oggi la ricostruzione del motivo dell’omissione di soccorso: fu frutto di errori e negligenze di chi doveva coordinarlo verso chi era imbarcato sul Moby Prince e mancò di farlo – Capitaneria di Porto di Livorno e Dipartimento marittimo Alto Tirreno di La Spezia – o questi scelsero coscientemente di non salvare i centoquaranta del Moby Prince, per proteggere un movente ad oggi ignoto e legato alla collisione?

Errori e negligenze identificano reati prescritti e le risposte sui misteri rimanenti di quella che resterebbe comunque la più grande tragedia della marineria civile italiana dal Dopoguerra potrebbero venire dalla nuova commissione d’inchiesta presieduta da Andrea Romano (Pd). La volontà di lasciar morire configurerebbe invece la strage, capo di imputazione che non cade mai in prescrizione, e per questo al centro dell’inchiesta della Procura di Livorno, da tre anni e mezzo gestita nel più stretto riserbo, incluse le testimonianze inedite sul caso del pentito ‘ndranghetista Filippo Barreca. Proprio due giorni fa il presidente della commissione Romano ha incontrato il procuratore di Livorno, Ettore Squillace Greco per un confronto sulla vicenda. “E’ stato un incontro proficuo – dice a ilfattoquotidiano.it Romano – Abbiamo concordato la massima collaborazione e avuto conferma che il fascicolo è sempre aperto. Andremo avanti in parallelo”.

Chi non crede alla tesi della strage è sicuramente Silvio Lai, ex parlamentare del Pd e presidente della precedente Commissione d’inchiesta sulla vicenda (che ha concluso i lavori nel 2018) . Lai, in audizione giovedì, ha precisato in risposta alle domande della commissaria Graziella Ciagà (Pd): “Non ritengo che siano stati volutamente non mandati i soccorsi. Penso che ci sia stata incompetenza, la banalità del male”. Martedì 14 settembre i familiari delle vittime andranno in Commissione d’inchiesta a presentare un punto di vista diverso. Anticipano a ilfattoquotidiano.it che chiederanno se la sola incompetenza può spiegare la scena simbolo del Moby Prince: il corpo integro del cameriere Antonio Rodi, riverso sulla poppa del Moby Prince alle 7 del mattino successivo alla collisione, vivo benché esanime, lasciato bruciare nelle due ore successive in favore di telecamere, sotto gli occhi di un elicottero dei carabinieri, senza nessuna autorità pubblica che ordinasse di portargli soccorso.

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