Nuova frenata produttiva per la General Motors. La carenza di microchip, che ormai da mesi interessa i maggiori produttori di auto, costringerà la casa statunitense a rallentare la produzione nella maggior parte dei suoi impianti in Nord America. Quindi catena ferma a Fort Wayne in Indiana e a Silao in Messico – dove si assemblano pick-up – dalla prossima settimana. In totale però gli stabilimenti coinvolti a settembre saranno otto. La crisi dei semiconduttori non pesa però solo sul colosso di Detroit: anche Ford ha annunciato nuovi tagli alla produzione di camion, mentre Toyota Motor questo mese ridurrà la produzione globale del 40% rispetto al suo piano precedente.

L’offerta limitata di chip riflette le difficoltà e le richieste di un anno alle prese con pandemia e lockdown: la domanda, in notevole aumento, nel settore della telefonia mobile e nelle infrastrutture per le tecnologia di quinta generazione ha assorbito una gran parte della quota di semiconduttori sul mercato. A questo si aggiungono gli acquisti di console per i videogiochi, televisioni e laptop, che competono, nell’approvvigionamento dei chip con un’industria – quella dell’automotive – che punta tutto sul “just in time“, cioè non fa scorte dei materiali di costruzione.

Non è però solo una questione di sbilanciamento della richiesta: i minerali usati per i semiconduttori, come il silicio, sono difficili da estrarre e i loro giacimenti si trovano in pochi stati – soprattutto in Africa. Abile nell’estrazione e nella lavorazione la Cina possiede circa un terzo delle riserve conosciute a livello globale e nel 2019 produceva circa il 63% delle terre rare, poi trasformate in materiali per i microchip. Alle industrie occidentali non ha quindi giovato la guerra commerciale tra Pechino e gli Stati Uniti. Per evitare le sanzioni imposte dall’amministrazione Trump, le aziende di tutto il mondo hanno cancellato le richieste di approvvigionamento inoltrate ai produttori cinesi. Al contrario, Huawei e tutte le altre società cinesi per cui vale il divieto di rivolgersi agli Usa – hanno dovuto ripiegare su fornitori più vicini, contribuendo così a ridurre le scorte dei principali estrattori.

Ad accusare la carenza nelle forniture sono state la maggior parte delle aziende che si occupano di tecnologia, con aumenti dei costi computer e smartphone per i consumatori. Ma a pagare il prezzo più alto sembrano essere le case automobilistiche. Già a febbraio General Motors era stata obbligata a una chiusura degli gli impianti americani di Cami (Canada), San Luis Potosi (Messico) e Fairfax (Usa), mentre in Corea del Sud. Oltre a dimezzare la capacità produttiva dei due impianti di Bupyeong. Dallo stesso periodo ci sono stati rallentamenti sulla catena anche per Ford, Stellantis, Toyota e Volkswagen, Subaru, Mazda.

Questa estate, Seat, marchio del gruppo Volkswagen, ha bloccato lo stabilimento di Martorell, vicino a Barcellona. Ford ha fermato la sua produzione di pick-up in Kansas, mentre alcune linee di Volvo e Audi, approfittando della possibilità di prolungare le pause estive, hanno funzionato un po’ a singhiozzo. Anche l’impianto di Wolfsburg di Volkswagen, il più grande al mondo con circa 60mia dipendenti, sta lavorando ad orario ridotto. Invece Stellantis, dopo gli stop temporanei in Francia (Rennes la Janais, Sochaux e Mulhouse) e in Germania (Eisenach), sta faticando nella ripresa della produzione anche Melfi in Basilicata – dove si producono la Jeep Renegade e la 500 X – e a Pomigliano d’Arco (Napoli) – stabilimento della Panda. Stop forzati anche anche a Cassino e nell’impianto Sevel in Abruzzo.

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