Musica

Il maestro Leonardo De Amicis si racconta a FQMagazine: “Ho fatto un disco con Papa Wojtyla e torno a Sanremo con Amadeus. Gli artisti più capricciosi? Quante ne ho visti. Poi, Mina…”

Lunedì 30 agosto si è chiuso chiude la 727esima edizione della Perdonanza Celestiniana, "un evento storico che ruota attorno all’apertura della Porta Santa nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio, a L’Aquila, voluta da un Papa abruzzese, Celestino V: ogni anno da oltre 700 anni il 28 agosto si apre la porta santa e si realizza una settimana straordinaria per gli aquilani e per l’Abruzzo", spiega il maestro. E nell'intervista si trova il racconto di questo evento ma anche di tanti, tantissimi aneddoti: da Gianni Morandi a Raffaella Carrà, alle "liti" del Festival

di Francesco Canino

A volte basta una tastierina regalata per caso, ad un compleanno, per far scoppiare una passione di quelle che fanno fare alla vita curve inaspettate. Chissà cosa sarebbe successo al maestro Leonardo De Amicis se suo papà non gli avesse regalato quella tastierina: forse avrebbe realizzato il sogno di diventare ingegnere navale, o forse la musica sarebbe comunque arrivata a stravolgere i suoi piano. Mina, Papa Wojtyla, Mariangela Melato, Raffaella Carrà, poi ancora Fiorello, Cocciante, la direzione delle orchestre in una tv di fasti e grandi ascolti, i Sanremo trionfali: De Amicis, volto familiare di tanti programmi di successo, non si è fatto mancare nulla, ha alzato l’asticella ma non ha mai rincorso il successo a tutti i costi. «Mi sono ritrovato per caso a vivere una vita straordinaria», racconta a FQ Magazine all’indomani dell’ultima serata della Perdonanza Celestiniana de L’Aquila, di cui è direttore artistico.

Maestro, lunedì 30 agosto si è chiuso chiude la 727esima edizione della Perdonanza Celestiniana. Come la descriverebbe a chi non la conosce?
È un evento storico che ruota attorno all’apertura della Porta Santa nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio, a L’Aquila, voluta da un Papa abruzzese, Celestino V: ogni anno da oltre 700 anni il 28 agosto si apre la porta santa e si realizza una settimana straordinaria per gli aquilani e per l’Abruzzo. La “bolla del perdono” è una festa religiosa ma anche laica. L’Aquila è stata a lungo un punto di transito della transumanza: un tempo qui s’incrociavano greggi e pastori, poi è diventato luogo di commercio e poi di cultura e grande musica. Qui sono passati i più grandi, da von Karajan a Bernstein.

Lei da quattro anni è direttore artistico della Perdonanza.
Ho presentato un progetto ed è stato accolto. Mi occupo dell’aspetto culturale, coinvolgendo 60 ragazzi del Conservatorio dell’Aquila in vere e proprie produzioni con i grandi artisti che vengono ad esibirsi. Non sono i classici concerti ma spettacoli ex novo in cui s’intrecciano musica e parole. È un’esperienza formativa per i ragazzi e si crea un’interazione forte tra chi viene ad esibirsi e la città.

Per il gran finale di ieri, sono in arrivo tra gli altri Fabrizio Moro, Ermal Meta, Monica Guerritore, Riccardo Cocciante e Renato Zero.
Grandi nomi per una serata speciale che sintetizza il messaggio lanciato quest’anno: un canto di rinascita, il viaggio come metafora di vita, il cuore al centro di tutto, come proiezione ideale verso lo star bene. Arte, musica e cultura puntano a quello: provocare emozioni che cambiano il nostro stato d’animo e ci fanno stare meglio.

Il titolo dello show era «L’Aquila ritorna». Che momento vive la città?
Un grande rinascimento culturale, si respira un’energia fortissima. Il terremoto ha provocato una frattura interiore enorme, ha spezzato fili e legami e c’è bisogno di ricostruire le case, i palazzi, le chiese ma anche puntare su un rinascimento culturale: è quello che riporta le persone nell’agorà. Gli aquilani e gli abruzzesi sono persone resilienti, abituati da secoli a rinascere: l’esperienza del passato non si scorda, ma guardiamo avanti.

Lei è abruzzese e ha studiato al Conservatorio dell’Aquila.
Sono cresciuto a Corvaro, un paesino di 600 abitanti della Valle del Salto, poi ci siamo trasferiti a L’Aquila e sono rimasto legato alla città. Ricordo gli anni al Conservatorio come un sogno: si respirava un’energia pazzesca, i grandi musicisti passavano da Santa Cecilia, a Roma, e poi venivano qui.

Se lo ricorda il momento esatto in cui è scattato il colpo di fulmine per la musica?
Ero un bambino, papà mi regalò una tastierina e io impazzii: ho iniziato giocando e non ho più smesso. Poi sono passato all’organo, al pianoforte e ho iniziato a prendere lezione.

S’immaginava musicista da ragazzino?
No, ambivo a diventare ingegnere navale. Feci lo scientifico, ma al quarto anno lasciai ed entrai al liceo musicale. In famiglia sognavano che diventassi medico, così m’iscrissi a medicina ma dopo tre anni mollai e proseguii con il Conservatorio. Giocando, mi sono ritrovato a fare il musicista e la musica è diventata la colonna portante della mia vita.

Lei, con il suo insospettabile passato metal e rock, si è ritrovato nel 1999 ad essere selezionato come compositore, direttore e produttore del disco-evento di Giovanni Paolo II, Abbà Pater.
Oggi ci ripenso e mi dico: «Non posso crederci». Sono stato fortunato a vivere un momento così intenso con un uomo così straordinario come Papa Wojtyla. Non ero solo un disco testamento con la sua voce, ma quella musica era scritta e prodotta da me: il disco del Papa che canta con un’orchestra fu qualcosa di memorabile, tanto che vendette 2 milioni di copie.

Il suo cammino si è intrecciato con Wojtyla, perché poi ha diretto l’orchestra in diversi Giubilei, compreso quello dei Giovani nel 2000, davanti a quattro milioni di persone. Il primo incontro con lui?
In Piazza San Pietro, durante l’udienza in cui presentammo il disco: non sono riuscito a dire una sola parola per l’emozione, sembravo un cretino. Mi mise mano sulla testa, mi abbracciò e bastò quello. La seconda volta che lo vidi mi ero preparato delle cose da dirgli, ma ancora una volta ero pietrificato: forse non serviva sporcare con le parole un momento così intenso. Bastava il silenzio.

Cosa la colpiva di lui?
Il carisma pazzesco, il suo essere accomodante e cento anni avanti a tutti noi. Ogni tanto tocco il Rosario profumato che mi regalò durante uno dei nostri incontri.

Lei è credente?
Sono credente, educato al cristianesimo ma il mio percorso è fatto di carambole, di andate e ritorni. Credo che esista un’energia divina e credo in alcuni principi della religione – come la condivisione e la fratellanza, perché non tutto è trascendentale – e sono legato emotivamente ad alcuni papi.

Dal sacro al profano: la messa laica di Sanremo. Sarà il direttore musicale anche nel 2022?
Sì, Amadeus mi ha chiamato e mi ha confermato. Sono a sua disposizione per idee e progetti.

Nel dettaglio, di cosa si occupa il direttore musicale di Sanremo?
La cosa più importante è la composizione musicale dell’orchestra: in questi due anni ho fatto grandi cambiamenti perché è cambiato il modo di suonare, tutto si evolve e dunque deve cambiare anche il taglio dell’orchestra. In generale seguo tutta la parte musicale, dagli stacchi alle esibizioni di conduttori e degli ospiti. I cantanti invece hanno il loro direttore.

Dall’exploit di Diodato al successo dei Måneskin: in pochi all’inizio credevano nelle scelte di Amadeus, poi si sono dovuti ricredere.
Chi lo critica non conosce il suo fiuto, la conoscenza che ha della musica e dei gusti del pubblico. Ne parlavo pochi giorni fa con Orietta Berti: la capacità che ha Amadeus di fare crossover musicali come quelli degli ultimi due anni, è una dote rara.

Lei ha mai dubitato di qualche scelta?
No, perché conosco la genesi del suo pensiero: quando disegna il Festival è coerente con il suo percorso e mi stupisce sempre. Tutti i brani li sceglie direttamente lui, se ha dei dubbi li condivide e chiede consigli.

Intoppi, bizze da star, delirio pre diretta. Cosa non abbiamo visto.
(ride) I capricci dell’artista che pensa di viaggiare sul tetto del mondo capitano qualche volta ma non farò nomi. Le posso assicurare che di solito riguardano personaggi secondari. Con i grandi professionisti riesci a gestire tutto, anche il gobbo troppo lontano a tre minuti dalla diretta, come accadde lo scorso anno con Ornella Vanoni: provammo all’ultimo minuto, pensavo «adesso succede un macello» e invece in onda andò tutto bene.

La Vanoni era nel cast di Ora o mai più, programma cult che incredibilmente Rai1 non ripropone.
Me lo chiedo anch’io perché non si rifaccia: era un racconto divertente e geniale e Amadeus un perfetto padrone di casa.

Lei fu al centro di una serie di battibecchi con Marcella Bella.
Se la prendeva per la divisione dei brani. «Preferisci Silvia Salemi a me», mi diceva. Si arrabbiò tantissimo ma non capiva che i grandi artisti dovevano fare un passo indietro per far risaltare i concorrenti.

Ma gli scontri più epici furono tra Rettore e Donatella Milani.
La Milani è una persona di cuore ma riusciva a mettere sempre una parola di troppo che faceva scoppiare casini assurdi. La gente ancora oggi mi chiede: «Era tutto orchestrato dagli autori?». Era tutto verissimo. Io mi sono divertito un mondo.

C’era sempre lei anche a Music Farm, con Simona Ventura.
Fu un’edizione epica e io ero l’unico che entrava nella Farm e parlava con gli artisti. Il cast era una bomba con un’Iva Zanicchi senza freni, poi si innescò tutta la soap tra Dolcenera e Francesco Baccini. Io nel frattempo dovevo tenere a bada Franco Simone che era incazzato nero con tutti: ce l’aveva con me perché all’epoca lavoravo con Carlo Conti e voleva che lui lo ospitasse nelle sue trasmissioni.

Chi la fece debuttare in tv come direttore d’orchestra?
La colpa, o il merito, è di Gianni Morandi. Mi chiamò per C’era una ragazzo, dopo che ero stato produttore di un suo disco. Fu la prima volta che misi su un’orchestra e non ero convinto di farcela perché non avevo visione chiara del lavoro. Invece ho aperto la testa e oggi conosco a memoria la canzone italiana dagli ’50 ad oggi. Gianni mi ripeteva: «Devi venire avanti, stare al centro della scena con me». Io mi vergognano, un po’ perché ero un ragazzino e un po’ perché non amo la visibilità a tutti i costi. Mi piace stare al mio posto.

Tra le chiamate inaspettate, ci fu quella di Raffaella Carrà.
È doloroso parlare di Raffaella perché la sua morte mi ha lasciato senza fiato. Io ero amico di Sergio Iapino e di conseguenza ho frequentato Raffaella con gli amici dell’Argentario di Pietrelcina. Gli piaceva il mio modo di vedere l’orchestra, fatta di più archi e meno fiati, e mi ripeteva sempre «io e te dobbiamo fare cosa assieme».

L’occasione si presentò con Amore, nel 2006, su Rai1
«Pronto Leonardo, ciao sono Raffaella: voglio la tua grande orchestra nel mio show sulle adozioni». Raramente ho visto un conduttore mettersi così a disposizione di un programma. «Non sono stanca fino a quando non mi dici che va bene», mi disse. Finì che registrammo la sigla in una sola giornata. Incredibile. Come quando mi chiamò per avere dei consigli per il suo ultimo disco: doveva cantare Hallelujah di Cohen e volle che le suggerissi un soprano.

Il suo lato privato?
I ricordi più privati li tengo per me. Era generosa, umana, diretta, senza sovrastrutture. Nell’immaginario collettivo era una diva invece era spiazzante la sua normalità. Provò a farmi giocare a tre sette, ma io non ci capivo un tubo. Ricordo grandi cene tra amici, venti trenta persone, le risate, l’energia di Raffaella.

Sapeva della sua malattia?
No, lo sapevano in pochissimi. Le ho mandato un messaggio il giorno del suo compleanno e lei mi ha risposto. È pazzesco come è andata via ma posso dire di essere stato fortunato a intrecciare il mio cammino con il suo.

Tra i grandi incontri che la vita le ha riservato, c’è anche quello con Mariangela Melato
Ho composto le musiche per il suo spettacolo teatrale Sola me ne vo. Era preparata, colta, carismatica. Sa da cosa ho capito che stava cento metri sopra tutti? Dalla ricerca del confronto continuo con gli altri. È una caratteristica che appartiene ai più grandi.

Sfogliamo l’album dei suoi ricordi. Mina.
Riccardo Cocciante aveva scritto per lei Se avessi tempo e dovevamo registrare il brano. Arrivai in studio con l’incoscienza del ragazzino, mi misi accanto a Massimiliano Pani e ad un certo punto entra Mina, va in sala e parte il rec: mi ricordo lei con un foglietto in mano, io pietrificato dalla sua voce.

Cosa accadde?
Cantò una sola volta ed era così perfetta che non ci fu bisogno di rifarla. Si tolse le cuffie e mi disse: «Va bene?». Cioè, Mina che chiedeva a me se andava bene? Ascoltò due o tre volte la registrazione e quella finì sul disco. Lei è di una simpatia gigantesca. La rividi per Amore Amore, che incise con Cocciante.

A Cocciante lei è legato da un’amicizia lunghissima.
Per me Riccardo è scuola di vita. Fui un suo musicista, poi arrangiatore e produttore. Una gavetta straordinaria e un’infinità di ricordi. Ho prodotto molti suoi album e abbiamo lavorato assieme fino alla pre-produzione di Notre dame de Paris poi iniziai un altro percorso. Lui è il padrino di mio figlio, ancora oggi siamo grandi amici.

Se le dico Fiorello?
Subito dopo Morandi, fui chiamato per Stasera pago io. Due edizioni clamorose. Conoscevo Fiorello ma non bene e li capii i segreti del suo successo: è un mattatore vero e anche se ha un gruppo di lavoro strutturato, è il miglior autore di sé stesso.

In quello show passarono tutti, da Celine Dione a Dionne Warwick, da Santana a Lionel Richie. Altra tv, altri budget.
Ma non ci fu mai divismo inutile. Né quando da Morandi venne Withney Houston c’era un alone preparatorio misterioso, tra bonifiche e body guard ovunque: poi arrivò a provare e filò tutto in maniera naturale. Ma ad impressionarmi davvero fu la semplicità di Dustin Hoffman, da Fiorello: entrò in studio e si mise visino al tastierista, poi mi guardò e mi disse. «Sa, io volevo fare questo da grande». Più sono grandi, più sono con i piedi piantati a terra.

Lei diresse anche l’orchestra di Ti lascio una canzone, con la Clerici, e fu anche direttore artistico dello show quando Roberto Cenci andò via.
Era un programma pulitissimo nelle intenzioni e tale è rimasto. E il meccanismo era talmente semplice che si sono create sovrastrutture e polemiche inutili. «Sono bambini, certe canzoni non le possono cantare», dicevano i critici. Chissà cosa pensano ora che i bambini di dieci anni hanno in mano lo smartphone e su YouTube ascoltano quello che gli pare.

Ma non c’era il rischio che scimmiottassero troppo gli adulti?
Guardi che per loro era un gioco, niente di più: loro erano mossi solo dalla passione per il canto.

La potenzialità di alcuni di loro vi è scoppiata tra le mani. Basta citare Il volo.
Ma nessuno di noi può dire: «io lo sapevo». Con Cenci ci inventammo di metterli assieme perché da soli erano forti e vincevano sempre loro. L’idea di fare i tre tenorini era un gioco, poi le cose sono cambiate con l’intuito di Tony Renis e con il lavoro di Michele Torpedine.

Ne ricorda altri diventati poi famosi?
Alberto Urso. Era una voce bianca quando fece provino, poi è maturata dopo. Molti dei ragazzi di Ti lascio una canzone hanno percorso la strada dei talent ed è una piccola soddisfazione vedere che ce la fanno.

E lei, tracciando un bilancio, quando ha capito di avercela fatta?
Penserò di avercela fatta quando smetterò di lavorare. Non è retorica, è il mio carattere: non ho obiettivi chiari, sono in continuo cammino e mi faccio guidare dall’istinto. Mi sono trovato a fare cose bellissime per caso, non c’è mai strategia o una mia telefonata. Certo, alcune occasioni te le crei, ma non mi piacciono le pr: preferisco essere introdotto in un ambiente perché qualcuno pensa che sono adatto a quella situazione.

Il suo grande sogno professionale?
Continuare a fare musica, a vibrare e ad emozionarmi, continuare ad essere al centro di questa straordinaria vita. Non ho grosse pretese, sono una persona semplice.

Il maestro Leonardo De Amicis si racconta a FQMagazine: “Ho fatto un disco con Papa Wojtyla e torno a Sanremo con Amadeus. Gli artisti più capricciosi? Quante ne ho visti. Poi, Mina…”
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