Quella di Cesare Pavese (1908-1950) è stata una vicenda umana e intellettuale difficile, segnata da lacerazioni personali e da una partecipazione spesso sofferta alla storia collettiva e alla vita culturale dell’Italia del Ventennio e del secondo dopoguerra.

Romanziere, poeta, critico letterario, traduttore di scrittori inglesi e americani (tra gli altri, di Dickens, Melville, Steinbeck), è alla letteratura e alla poesia, “terra nuova”, che Pavese guarda per affrontare la complessità del reale, per cercare il contatto con l’altro: e in questa ricerca si attiva, fin dai primi esercizi poetici degli anni del liceo, il binomio poesia-amore.

“Ogni poeta s’è angosciato, meravigliato e ha goduto”, scrive Pavese nell’ottobre 1935 in uno dei primissimi appunti del suo diario, Il mestiere di vivere, concluso pochi giorni prima della morte e pubblicato postumo nel 1952: nella sorprendente “nuova realtà portata in luce” dalla poesia sembra possibile l’incontro con una donna che sia una compagna per la vita, per la quale “valga la pena” – “Solamente girarle, le piazze e le strade / sono vuote. Bisogna fermare una donna / e parlarle e deciderla a vivere insieme. […] Se fossero in due, / anche andando per strada, la casa sarebbe / dove c’è quella donna e varrebbe la pena” (“Lavorare stanca”, vv. 10-12, 18-20).

Fin dalla prima raccolta di poesie, anch’essa intitolata Lavorare stanca (1936), il desiderio della donna si intreccia alla dialettica città/campagna (cioè Torino e le Langhe), al contrasto tra la realtà inappellabile della storia e una dimensione mitica che custodisce segreti prodigiosi: “Queste dure colline che han fatto il mio corpo / e lo scuotono a tanti ricordi, mi han schiuso il prodigio / di costei, che non sa che la vivo e non riesco a comprenderla” (“Incontro”, vv. 1-3).

Il desiderio amoroso, però, è destinato a non realizzarsi: dall’incontro con la giovane comunista Tina Pizzardo all’inizio degli anni Trenta (nel maggio 1935 Pavese viene arrestato perché in possesso di alcune lettere cifrate indirizzate a lei, che era tenuta sotto controllo dalla polizia), a quello con Fernanda Pivano, che rifiutò la sua proposta di matrimonio, nella primavera del 1940 e poi con Bianca Garufi nel 1945, fino all’ultimo incontro con l’attrice americana Constance Dowling, a Roma nel 1949, che “arriva a fulminare un uomo già predisposto allo shock” (R. Gigliucci), gli amori di Pavese sono tutti amori infelici, e come tali li restituisce la sua poesia degli anni Quaranta.

Tra le liriche scritte per la Pivano e l’ultima raccolta, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (uscita postuma nel 1951), per Constance, la compenetrazione tra donna amata e paesaggio mitico della campagna si fa via via più dolorosa e funerea: se in “Estate” (1943) la donna è ancora un “prodigio”, ma un prodigio che “preme il cuore con un tonfo” (“Così trasalisci tu pure / al sussulto del sangue. Tu muovi il capo / come intorno accadesse un prodigio d’aria / e il prodigio sei tu. […] Hai nel viso un silenzio che preme il cuore / con un tonfo, e ne stilla una pena antica / come il succo dei frutti caduti allora“, vv. 8-11, 17-19), nella tarda “Hai un sangue, un respiro” (marzo/aprile 1950) amore e morte vengono a coincidere in lei – “Come / erba viva nell’aria / rabbrividisci e ridi, / ma tu, tu sei terra. / Sei radice feroce. / Sei la terra che aspetta” (vv. 34-39).

Il 1950 non fu certo un anno privo di impegni né di soddisfazioni intellettuali per Pavese: a giugno ricevette il premio Strega per il volume La bella estate (1949), che raccoglie, insieme al romanzo eponimo, altri due romanzi “di iniziazione” (Il diavolo sulle colline e Tra donne sole), che mettono al centro il doloroso confronto con le cose e con un destino ineluttabile.

Ciononostante, il 27 agosto Pavese si toglie la vita in una stanza d’albergo a Torino: se il pensiero del suicidio lo accompagna fin dalla giovinezza, affidato alle pagine del Mestiere dapprima come atto sublime di ribellione e infine come esaurimento delle forze, l’ultimo atto della sua scrittura è ancora una volta in versi, quelli carichi di disillusione di “Last blues, to be read some day”, allegati a una lettera alla Dowling del 17 aprirle 1950:

‘T was only a flirt
you sure did know –
some one was hurt
long time ago.

All is the same
time has gone by –
some day you came
some day you’ll die.

Some one has died
long time ago –
some one who tried
but didn’t know.

Far poesia è come far l’amore” – scriveva già il giovane Pavese nel novembre 1937: “non si saprà mai se la propria gioia è condivisa”.

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