“Da quando faceva il poeta a tempo pieno, la sua vita era ripartita dal via e il precipizio si era talmente allontanato che quasi dubitava di essersi mai trovato così vicino. Anche quando, ormai raramente, gli capitava una nottata etilica classica come quella appena trascorsa (classica significava passata coi soliti nazisti da bar a parlare dell’ospizio dei sogni e a guardare le curve a qualche ragazzona a caccia di Lamborghini), il caro vecchio baratro non si faceva più intravedere. Sarà stato che con quei miseri cinquanta euro da poeta non si poteva permettere grandi trasgressioni, ma di fatto l’abisso oscuro, tipo Ade ma con l’odore di copertone del Lagavulin al posto dello zolfo, rimaneva a debita distanza”.

L’uomo che rovina i sabati, di Alan Poloni (Miraggi Edizioni), è un romanzo pirotecnico, originale ed è, a mio avviso, una delle opere italiane più riuscite degli ultimi tempi. L’autore riesce a evitare trite e ritrite tematiche provinciali tanto care alla quasi totalità degli scrittori nostrani contemporanei, non ha paura di gettarsi nelle marginalità narrative e da queste riemergere con una storia unica, una sorta di saga psichedelica di Tom-Robbinsiana memoria. Il luogo è la Val Crodino, dove il tempo si è fermato alla decenza culturale; Jack Ebasta, poeta donnaiolo dipendente dai reading, Malcolm Chiarugi, cantautore che dedica le proprie canzoni alle sue conquiste sessuali, il Palma, liutaio infatuato delle proprie chitarre, un etnologo esperto di funghi allucinogeni che vive arroccato sul cucuzzolo di una montagna, sono i personaggi principali di un viaggio alla Apocalypse Now versione montana. Un viaggio pieno di sorprese, di trovate intelligenti e di nodi narrativi capaci di creare una sorta di dipendenza al lettore.

“Khaled guardò Ahmed pisciare all’angolo del muro scrostato dietro lo sguardo pieno di rabbia degli italiani che al di là della rete protestavano contro gli immigrati (…) Panoramicò il centro di accoglienza di Pozzallo dove era appena stato scaricato da Lampedusa e strinse gli angoli della bocca: un gruppo di venti italiani, teste rasate, giubbotti neri e blue jeans, agitavano al vento le bandiere tricolori e scandivano slogan che non comprendeva, ma il tono quello sì, non era necessario appellarsi a un traduttore. Si sentiva prigioniero. Si sentiva un oggetto spostato da una parte all’altra. E anche rifiutato”.

Mediterraneo nero, di Gian Luca Campagna (Ugo Mursia Editore), è un romanzo che si muove tra gli aromi del Mare Nostrum e lo squallido traffico di rifiuti tossici e radioattivi. Francesco Cuccovillo, un cronista di un quotidiano nazionale, si ritrova coinvolto in una strana faccenda legata all’amianto. Inizia una caccia all’uomo che vede come cornice l’Italia che affaccia sul Mediterraneo e che si miscela con la storia di una nave affondata al largo delle coste pugliesi, con gli ormai endemici problemi di immigrazione, integrazione e rivendicazioni nazionali, e con una killer fattasi escort alla ricerca di una sua personale vendetta. Il nuovo lavoro di Campagna si muove tra sospetti, depistaggi, inquinamento, tratte di schiavi, ma ha la forza di far emergere le bellezze del Mediterraneo, culla della civiltà e incrocio di profumi, storie, speranze e nuove visioni. Un romanzo reale e coraggioso.

“Finì di vuotare la bottiglia, pagò il conto che l’ostessa gli presentò, quindi uscì senza togliersi dal cappello i fiori che pendevano ora appassiti e dondolanti. La strada era deserta; il pomeriggio volgeva alla fine. Scartò subito l’idea di andare a casa e s’avviò verso Serra, col passo lento di chi non deve andare in nessun luogo e nello stesso tempo ha bisogno di muoversi per sfuggire più che agli altri a sé stesso, aspettando con la fine della giornata la fine della propria tristezza”.

Zebio Còtal, di Guido Cavani (prefazione di Omar Di Monopoli; Edizioni Readerforblind), capolavoro della letteratura italiana (la prima edizione è del 1958), finalmente torna in libreria. Una miscela di verismo verghiano, James Agee e James Still ambientata sull’Appennino modenese e che vede protagonista il rustico Zebio, ostinato contadino che coltiva un campo di grano e gramigna, che fa della moglie e dei figli l’oggetto della propria ira fino a quando una tragedia non lo obbliga a trasformarsi in un vagabondo e a muoversi in una natura crudele e mozzafiato. Un affresco indimenticabile, una diaspora familiare drammatica. Una lucida riflessione sui dimenticati della Storia, sui loro errori e la loro inflessibile tempra agreste.

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