Riccardo Muti ha ottant’anni. Pare incredibile a dirsi, lui, il brio e la giovinezza perenne alla direzione d’orchestra, ha raggiunto il traguardo che lo farebbe sembrare un maestro anziano, se poi non lo si vedesse ancora dirigere, provare e spiegare al pianoforte, immutato come 20 o 30 anni fa. Per festeggiarlo, la Warner, ha messo su un box di 91 cd con tutte le registrazioni non operistiche effettuate per la benemerita Emi, sua casa discografica per tanti anni. C’è praticamente tutto o quasi il repertorio sinfonico del maestro napoletano. Una collaborazione iniziata negli anni Settanta e proseguita per un trentennio.

Ottant’anni, eppure sembra ieri che questo giovane tempestoso e talentuoso, che aveva studiato con Vincenzo Vitale pianoforte a Napoli e che forse avrebbe potuto percorrere una fruttuosa carriera di solista, saliva a Milano per studiare direzione d’orchestra con Antonino Votto nel culto, mai diminuito in quella città, del grande Arturo Toscanini, e che brillantemente poi vinceva il concorso intitolato al più grande degli allievi del Maestrissimo, Guido Cantelli.

Da lì fu ascesa rapidissima, prima il Maggio Musicale poi nel 1973 l’incarico alla New Philarmonia Orchestra dopo il ritiro e la morte del grande vecchio, Otto Klemperer, poi Philadelphia (pare su suggerimento di Ormandy) e i primi incarichi al Festival di Salisburgo, favente Karajan, una collaborazione oramai cinquantennale e poi ovviamente il lunghissimo sodalizio coi Wiener Philarmoniker, Monaco e soprattutto La Scala, di cui ha tenuto la direzione musicale per quasi un ventennio (un anno in più del collega e ‘rivale’, Claudio Abbado). È approdato poi alla Chicago Orchestra nel 2010 e ha fondato l’Orchestra Cherubini, compagine giovanile, che come Abbado con la sua Orchestra Mozart, si dimostra strumento più duttile ed entusiasta rispetto alle falangi con una loro tradizione blasonata di suono. E poi il Festival di Ravenna che è una delle sue maggiori creature e impegno costante oramai più che ventennale.

Però, ricordando gli inizi, è proprio al Maggio e con la [New] Philarmonia che il maestro si fece la solida reputazione di [ri]fondatore o costruttore di orchestre. Soprattutto l’orchestra londinese infatti, aveva bisogno di un certo risveglio tecnico, visto che Otto Klemperer oramai più che ottuagenario e malato negli ultimi anni della sua tenuta dell’orchestra, non poteva certo badare alla qualità tecnica, che era praticamente affidata agli stessi orchestrali, riservando, il gigante, le sue energie residue alla sostanza musicale in maniera praticamente esclusiva, essendo sue ossessioni da sempre l’equilibrio tra le varie sezioni e il fraseggio, i tempi già assai moderati erano andati rallentando vieppiù con l’età.

Muti irruppe con la sua passione per tempi molto mossi, un cantato strumentale di pretta marca italiana, forti accentazioni e la richiesta di un virtuosismo orchestrale che rinnovò diede nuova spinta al complesso londinese, anche sul fronte del repertorio che era diventato essenzialmente quello austro-tedesco dell’Ottocento.

Nella sua esperienza (anche in sala d’incisione) con la Philarmonia c’è lo specchio di tutta la carriera successiva del maestro napoletano: repertorio vasto, dal Settecento al Novecento con una predilezione per il versante italiano (per Cherubini innanzitutto, Verdi ma anche Vivaldi e Rossini) ma anche tanto repertorio russo (Prokofiev, Ciaikovskij, Rimskij- Korsakov, Mussorgskij, Scriabin) e francese (Berlioz, Ravel). Con l’orchestra di Philadelphia incise il repertorio più tradizionale: Beethoven (una visione che si potrebbe definire neo-toscaniniana ma con meno oltranzismo e con più eleganza di fraseggio), ancora qualche pregevole Scriabin e l’amato Respighi. Ma fuori dal box sinfonico Muti rimane celebre per il suo instancabile impegno operistico e verdiano in primo luogo (c’è uno splendido box verdiano Warner uscito qualche anno fa con le 11 opere affrontate e incise da Muti), di cui rimane senza dubbio il maggior interprete vivente e di cui ha indagato a fondo le opere con risultati ragguardevoli, l’Attila migliore in discografia con l’ottimo Ramey una bellissima Traviata con un Alfredo Kraus sempre impeccabile e una grande Renata Scotto, Rigoletto (inciso due volte, la seconda per Sony con un declinante ma intenso Bruson) spicca per la grande efficienza dell’apparato sinfonico anche se Zancanaro non è mai stato un baritono all’altezza di quella bacchetta; la splendida Aida con un grandissimo cast dominato da Montserrat Caballè.

Anche su Rossini Muti si è impegnato con una bella versione del Guglielmo Tell e con una splendida Donna del lago, seconda solo alla versione inarrivabile diretta da Maurizio Pollini. E non si può tacere il suo impegno sul Mozart operistico, la trilogia dapontiana rimane tra le migliori in catalogo.

Molto sarebbe da aggiungere a una carriera che è ancora in fieri e riserva molte sorprese: dalla rinnovata attenzione per le opere napoletane del Settecento all’aggiunta interessantissima di qualche sinfonia di Bruckner, splendida la Seconda sinfonia uscita 5 anni fa, live a Salisburgo coi Wiener, una Tredicesima di Shostakovich con l’orchestra di Chicago, umanissima, tragica il giusto ma composta, trenodia tra le più pacate e meditate in discografia, indici di una ricerca nel repertorio ancora in corso, con il fuoco proverbiale che forse si sta facendo scintilla montante e non più scarica elettrica ma che ci fa intravvedere l’estate indiana di un grande direttore da seguire con la massima attenzione.

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