La somiglianza è disarmante. Anzi, viene da pensare che qualcuno in via Arenula abbia preso ispirazione. Come ricostruito dal Fatto, la riforma della prescrizione varata dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia ricorda da vicinissimo una delle leggi-vergogna dell’ultimo governo Berlusconi: il ddl sul “processo breve” approvato dal Senato a gennaio 2010 e redatto nientemeno che da Niccolò Ghedini, l’avvocato dell’ex premier, all’epoca seduto a Montecitorio. Il titolo era “Misure per la tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi”, formula che confondeva, allora come oggi, la riduzione dei tempi dei processi con la loro morte anticipata per legge (che, al contrario, può soltanto incoraggiare impugnazioni e tattiche dilatorie). Ecco i punti di contatto e le differenze tra i due provvedimenti.

Il testo Cartabia: due anni in Appello e uno in Cassazione… – Entrambi i ddl prevedono l’estinzione del processo (che quindi non può più andare avanti) al superamento di una certa durata temporale. Nel testo Cartabia il termine standard è di due anni per il giudizio d’Appello e uno per quello di Cassazione: si calcola a partire dalla scadenza del termine per impugnare la sentenza del grado precedente (al massimo 45 giorni dopo il deposito delle motivazioni, che a loro volta arrivano al massimo 90 giorni dopo la pronuncia). Nei processi per un elenco di gravi reati (tra gli altri, delitti di mafia, terrorismo e contro la pubblica amministrazione) i termini possono allungarsi, ma solo a discrezione del giudice, “nel caso di giudizio particolarmente complesso” fino a tre anni per l’Appello e due per la Cassazione. In ogni caso l’estinzione non si può applicare ai procedimenti per delitti puniti con l’ergastolo.

…e quello di B.: due anni per tutti e tre i gradi di giudizio – Con il “processo breve”, invece, la maggioranza del 2010 voleva far scattare la tagliola per qualsiasi reato, senza eccezioni di gravità. La differenza stava nei tempi di estinzione, divisi in quattro fasce: per la maggior parte delle fattispecie, quelle punite non oltre i dieci anni di carcere, erano concessi due anni per ogni grado di giudizio (compreso il primo). Termine, quindi, più severo rispetto alla riforma Cartabia per il primo grado, identico in Appello, addirittura più largo per la Cassazione. Se commessi prima del maggio 2006 (la soglia di applicazione dell’indulto varato dal governo Prodi), per questi reati i termini cambiavano rispettivamente in tre anni, due anni e 18 mesi. Anche in questo caso, “peggio” del testo di oggi in primo grado, uguale in Appello, ma “meglio” in Cassazione. Per i delitti puniti con più di dieci anni sarebbero stati a disposizione quattro anni in primo grado, due in Appello e 18 mesi in Cassazione, per quelli di mafia e terrorismo rispettivamente cinque, tre e due anni (cioè, per il terzo grado, più che con la riforma Cartabia, esclusi i casi di fattispecie punite con l’ergastolo). I termini, però, venivano fatti decorrere fin dal momento della pronuncia del dispositivo, “mangiando” al conto alla rovescia fino a quattro mesi in più.

Il consigliere di Cartabia: “Stagioni e attori diversi” – Le distanze, insomma, sono minime, sia nelle norme che nell’ideologia sottostante. Tanto che persino il principale consigliere della Guardasigilli – l’ordinario di diritto penale alla Statale di Milano Gian Luigi Gatta – interpellato da Repubblica sulla differenza tra i due testi, nel merito riesce a rispondere solo che “la proposta del 2009 riguardava anche il primo grado“. Per poi deviare il discorso sul diverso clima politico dell’epoca: “Confronti tra stagioni politiche diverse e attori diversi non sono proponibili”, sostiene, perché quella di Berlusconi “una stagione ormai passata, in cui il dibattito sulla prescrizione era condizionato dal sospetto di leggi ad personam” (l’ex premier, ai tempi, era alle prese con il processo Mills nel quale era stato appena condannato in Appello). “La madre di tutti i problemi – sostiene – è la durata del processo. Bisogna ridurla a tempi ragionevoli: se lo si fa si evitano la prescrizione, l’improcedibilità e si tutelano gli interessi di imputati e vittime”. Non è chiaro, però, perché i processi dovrebbero di colpo accorciarsi per la semplice imposizione di un limite massimo di durata, in assenza di filtri alle impugnazioni o dell’abolizione del divieto di reformatio in peius (per cui, al momento, l’imputato che appella la sentenza non rischia una condanna più pesante di quella ricevuta in primo grado).

“Serve per i fondi Ue”. Ma l’Anm: “Allungherà i processi” – E ripropone quel “ce lo chiede l’Europa” (che in realtà chiede tutt’altro) già sfoderato da Cartabia per spingere una rapida approvazione delle nuove norme: “La riduzione del 25% dei tempi del processo serve per ottenere dall’Europa i fondi del Recovery plan. L’impegno del governo va esattamente in questa direzione. L’auspicio è che lo stesso impegno sia ora del Parlamento, chiamato ad approvare la riforma“. Non la vede allo stesso modo l’Associazione nazionale magistrati, che attacca il testo spiegando che “determinerà un incentivo per le impugnazioni, con ulteriore aggravio per gli uffici in sofferenza ed inevitabile incremento dei tempi di definizione, mettendo così a rischio il perseguimento dell’obiettivo strategico di riduzione dei processi penali del 25%”. Due versioni opposte: quale sia quella vera lo diranno solo i fatti. Ma potrebbe essere troppo tardi.

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