Il dossier - La riforma Cartabia però è peggio

La nuova prescrizione di Cartabia ha un padre: è il “processo breve” sognato da B. e Ghedini

15 Luglio 2021

In quel novembre del 2009 spirava un vento di “pacificazione nazionale”. Per dirla con Luciano Violante, ex presidente della Camera, era necessario porre fine al “conflitto tra politica e magistratura”. Undici anni e molta acqua sotto i ponti più tardi, il film è lo stesso. Al governo non ci sono più Silvio Berlusconi e Angelino Alfano (ministro della Giustizia), ma Mario Draghi e Marta Cartabia. Eppure la voglia di restaurazione è la stessa di allora. La riforma del processo penale dell’attuale Guardasigilli, approvata all’unanimità in Consiglio dei ministri, infatti, ha un padre che risale ai tempi d’oro del berlusconismo: il “processo breve”. Una legge concepita con un obiettivo preciso: salvare il presidente del Consiglio dai suoi processi. Oggi, invece, il governo dei “migliori”, sempre a trazione centrodestra, con la scusa di velocizzare i tempi della giustizia, ha deciso di cancellare con un tratto di penna la riforma “Bonafede” che stoppava la prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Come? Tornando indietro di 12 anni, resuscitando il progetto di legge di Berlusconi-Alfano-Ghedini.

Allarme Salvare Silvio a tutti i costi da Mills

A fine 2009, a Milano, incombeva il processo per frode fiscale nel caso Mediaset, per corruzione giudiziaria nel processo Mills, mentre a Roma per istigazione alla corruzione di alcuni senatori del centrosinistra. Così, dopo aver vinto le elezioni un anno e mezzo prima, nel primo anno e mezzo di legislatura Berlusconi riesce a piazzare ben quattro leggi ad personam: la “blocca processi”, il ddl Intercettazioni, lo scudo fiscale e il “lodo Alfano” che rendeva immuni le principali cariche dello Stato. Nell’ottobre 2009 però la Corte costituzionale dichiara incostituzionale il “lodo Alfano”. C’è bisogno di mettere una pezza subito per evitare che riprendano i processi in corso. Così, provvidenziale, arriva l’ennesima legge ad personam: il “processo breve”. Nel novembre 2009 i responsabili giustizia dei partiti di maggioranza, Matteo Brigandì (Lega), Giulia Bongiorno (An) e Niccolò Ghedini (Forza Italia) iniziano a studiare una legge per salvare il premier dai processi, soprattutto da quello con l’avvocato Mills, il più pericoloso. Il 12 novembre, dopo un incontro risolutore tra Berlusconi e Fini, l’accordo è raggiunto: il capogruppo e vice capogruppo del Pd al Senato, Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello, presentano un ddl per “tutelare i diritti e le garanzie del cittadino”. Il principio è semplice: la legge stabilisce che se un processo non si conclude entro una certa data, scatta la prescrizione. Sei anni in tutto: 2 dalla richiesta di rinvio a giudizio, 2 per l’Appello e 2 per la Cassazione. Se il processo dura anche solo un giorno in più, muore. La legge non si applica per i delitti gravissimi e per gli imputati recidivi: vale per i reati puniti fino a 10 anni e per gli incensurati. Inclusi i reati contro la pubblica amministrazione. Quelli che interessano a Berlusconi e ai colletti bianchi. La legge Cartabia di oggi sembra copiata per quanto è simile: la prescrizione si blocca dopo la sentenza di primo grado, ma da quel momento il processo si deve celebrare in Appello in 2 anni e in Cassazione in 1. Altrimenti scatta l’improcedibilità. Ergo: la prescrizione.

Mannaia Mediaset, Cirio: procedimenti in fumo

Il governo nasconde una norma ad personam dietro a un trucco linguistico – il “processo breve” – ma i magistrati non la bevono: l’Anm parla di “riforma devastante”, il Csm calcola che si estingueranno il 40-50% dei processi. Alfano assicura che “solo l’1% dei procedimenti in corso è a rischio”, ma anche ad Arcore c’è chi prende le distanze. Addirittura l’altro avvocato di B. Gaetano Pecorella si dissocia: “La legge risponde a esigenze demagogiche e populiste – dice – la corsia preferenziale per gli incensurati è irragionevole e se il processo è molto complesso è difficile che si celebri in due anni”.

Dopo le proteste, la legge viene un po’ modificata in Parlamento: il processo breve si applicherà a tutti gli imputati senza distinzione e i procedimenti si estinguono in 3 anni per il primo grado, 2 in Appello e 1 anno e 6 mesi per la Cassazione. La norma transitoria è quella ad personam perché fa scattare il processo breve per tutti i reati commessi prima del maggio 2006 tra cui quelli del processo Mills e Mediaset. Insieme a questi moriranno anche tutti gli altri procedimenti che vedono imputati i colletti bianchi: i crac Cirio e Parmalat, le scalate illegali di Antonveneta e Bnl, lo spionaggio Telecom e lo scandalo Calciopoli. Tutto prescritto. La legge viene approvata al Senato con 163 voti del Pdl, 130 no di Pd, Udc e Idv, ma il “processo breve” non sarà mai legge dello Stato: il governo lo usa come grimaldello per approvare un’altra legge ad personam, il “legittimo impedimento”.

Quirinale Persino re Giorgio si oppose al governo

In quei giorni, l’approvazione della riforma aveva fatto scattare la rivolta nel centrosinistra. Il Pd minacciava fuoco e fiamme: Luigi Zanda chiedeva al premier di “venire in aula a riferire” sulle 10 domande poste da Repubblica sul caso escort, mentre i leader dem annunciavano le “barricate”. Anna Finocchiaro sull’Unità parlava di “amnistia mascherata”. Ancora Pier Luigi Bersani: “Se cancelliamo i processi sarà scontro”. Il più duro era il leader dell’Idv, Antonio Di Pietro, che parlava addirittura di “crimine” di cui era “complice” Fini. Anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano provò a influenzare le mosse di Palazzo Chigi: “No alle riforme di corto respiro” fu il monito. Anche i quotidiani iniziarono una campagna durissima contro la legge. Repubblica di Ezio Mauro parla di “legge salva-premier”, pubblica le denunce dei pm e schiera le migliori firme contro la norma. Massimo Giannini accusa B. di “stato di eccezione”, Giuseppe D’Avanzo di legge “che sfascia la già malmessa macchina giudiziaria” e Curzio Maltese di “vergogna al potere”. Si immola anche Roberto Saviano che chiede al premier di ritirare “la norma del privilegio”. Anche L’Unità titola contro il self made laws (l’uomo che si fa le leggi da solo) e la direttrice Concita De Gregorio scrive della “ossessione di uno solo”. Anche il Corriere e il Sole 24 Ore si schierano: per Sergio Romano sono “riforme piccole e sbagliate” mentre il quotidiano di Confindustria fa il conto dei processi a rischio (100 mila). Oggi, invece, 12 anni dopo, è tutto cambiato: il Pd sostiene la riforma Cartabia che sulla prescrizione è identica a quella del 2009. La differenza? Al posto del “diavolo” Berlusconi a Palazzo Chigi c’è Draghi e il governo dei migliori. Quindi va bene tutto. Anche a costo di rinnegare anni di battaglie.

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