Non so se il premier Mario Draghi o il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi abbiano mai visto dal vivo una scuola serale, gli adulti che la frequentano, gli insegnanti che ci lavorano, insomma il mondo che ruota intorno a questo angolo nascosto della scuola italiana. È un’esperienza che dovrebbero fare – il ministro Bianchi più che il premier, visto che è addirittura titolare della cattedra Unesco “Educazione crescita e uguaglianza” –, si accorgerebbero subito che differenza c’è fra addestramento, formazione professionale e istruzione. Forti di questa nuova consapevolezza, maturerebbero certamente una diversa visione del rapporto fra economia, politica e istruzione.

Il fondamento principale della democrazia è la conoscenza: chi vive nell’ignoranza e nella superstizione è manipolabile e controllabile, per partecipare bisogna conoscere. D’altra parte la conoscenza è un processo faticoso per l’individuo, discretamente costoso per la società e rischioso per chi comanda, non sai mai cosa farà l’essere umano quando scopre che la sottomissione in cui è vissuto non è figlia dell’ordine naturale delle cose. Che può riscattarsi, che può liberarsi. Per questo l’alfabetizzazione del popolo è sempre stata una bandiera delle sinistre e per questo ancora oggi nel terzo mondo si lotta perché le donne, tradizionalmente escluse, abbiano pieno accesso all’istruzione; l’emancipazione passa da lì.

Negli ultimi cinquant’anni, la scuola ha funzionato bene come ascensore sociale collettivo in almeno due sue articolazioni: la scuola a tempo pieno per i ragazzi dai 6 ai 14 anni, nel nord Italia anche occasione irripetibile di integrazione accelerata delle famiglie immigrate dal sud del paese, in cui si provò a costruire una nuova didattica per una nuova scuola di massa; poi le 150 ore, lavoratori che tornano a scuola per ottenere la licenza media, con il consenso e qualche volta il contributo dei datori di lavoro.

In entrambi i casi il sindacato ebbe un ruolo di assoluto primato: rappresentare i nuovi bisogni emersi dalla trasformazione del paese da agricolo a industriale con la promozione dell’individuo, il suo riscatto anche sul versante delle capacità di essere produttore di cultura perfino trovandosi in condizioni di sfruttamento e subalternità, a volte proprio in quanto tale.

Così l’istruzione degli adulti diventò parte del sistema scolastico italiano e così diede il suo contributo al superamento del gap di conoscenza e di cittadinanza che gli sconquassi sociali dell’industrializzazione accelerata avevano prodotto. In un arco di tempo relativamente breve, 30 anni circa, scomparsi gli analfabeti (oggi il 4%), i giovani arrivavano quasi tutti almeno alla licenza media, gli adulti che lo desideravano (perfino quelli completamente analfabeti) con le 150 ore anche, magari poi decidendo di continuare gli studi iscrivendosi a qualche corso serale di istituti tecnici e professionali, incentivati dalla possibilità che un titolo di studio “alto” li avrebbe favoriti in azienda.

Un innalzamento poderoso del livello di istruzione della popolazione italiana, un deciso rilancio dei corsi serali delle “scuole tecniche”, certamente per accompagnare industria e servizi nella loro evoluzione tumultuosa, ma anche per integrare, per includere, per costituire quella base culturale comune capace di formare la nazione.

Poi, verso la fine del secolo scorso, cominciarono ad iscriversi persone dai cognomi strani e dalle facce inconfondibili, avamposti di quell’ondata migratoria che compensa solo in parte il calo demografico – prima ai corsi di alfabetizzazione e per il conseguimento della licenza media presso i Cpia (Centri Provinciali per l’Insegnamento agli Adulti), poi ai corsi serali degli istituti tecnici e ai corsi professionali –, che la politica tutta ha continuato a pensare come sottrazione invece che come moltiplicazione. I figli di quelle persone cominciavano a frequentare le scuole materne ed elementari senza troppi scossoni, i Salvini riempivano ancora le ampolle con l’acqua del Po e ce l’avevano coi meridionali. Un’altra epoca.

La scuola è tornata con gli immigrati strumento potente di integrazione, proponendo come poteva agli adulti modelli e saperi certamente utili a trovare lavoro, ma soprattutto a ottenere ascolto e cittadinanza. E lo è anche oggi: i Cpia sono frequentati in prevalenza da stranieri, i cittadini italiani la licenza media ce l’hanno praticamente tutti. Nei corsi dei Cpia sono tantissimi i giovani stranieri, fra loro i minorenni con o senza famiglia, che vanno a scuola almeno 3 o 4 ore al giorno imparando non solo la lingua, ma anche e soprattutto i rudimenti del sapere necessari a operare le scelte buone per loro.

L’onda dei neo-alfabetizzati è arrivata già da tempo anche nei corsi serali delle scuole superiori con un duplice effetto: diminuisce l’età media degli iscritti di origine italiana e aumenta il numero di stranieri adulti. Il primo fenomeno è da correlare all’aumento dell’abbandono scolastico, chi non ha finito gli studi prova a frequentare il serale per riscattare il fallimento (e ci riesce quasi sempre); gli adulti italiani non hanno più molta motivazione a iscriversi perché le carriere nelle aziende si fanno in altro modo o proprio per niente. Gli stranieri più motivati approfittano dell’istruzione gratuita sconosciuta nel loro paese d’origine, vengono a scuola e imparano non come funziona la macchina su cui trascorreranno la giornata lavorativa, ma i fondamenti scientifici e tecnici delle cose che fanno e che vorrebbero fare. Cittadinanza è anche questo.

Dovrebbe tenerlo presente il ministro all’Istruzione che, oltre al resto, non sembra curare troppo la lingua con cui esprime contenuti connessi al suo ruolo. Ecco, dovrebbe cominciare di lì. Se ha bisogno di un aiuto, sappia che una mano possiamo dargliela. Naturalmente gratis.

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