Ormai, l’espressione “grande reset” è diventata un vero e proprio topos della post-modernità. Anzi, un topos dell’epoca post-Covid. È il titolo di una nuova trama: dove si racconta di come sarà più bello, più verde, più giusto, più inclusivo il futuro. Un “topos” è, per definizione, un “luogo comune”. E il grande reset può considerarsi il luogo comune per eccellenza: sembra essere, infatti, la chiave di accensione per fare del mondo un “luogo” gioiosamente condiviso da tutti i suoi abitanti, o quasi. Ovvero il biglietto di ingresso per il rinnovato pianeta in cui vivremo, felici e contenti, fra dieci o vent’anni. Quando, cioè, la “nuova normalità” post-pandemica non solo l’avremo digerita definitivamente, ma addirittura – stando perlomeno ai cantori delle meraviglie del grande reset – la ameremo.

Il progetto prevede, in sintesi, di trasformare la crisi pandemica in una “opportunità”: in vista di un pianeta più vivibile, di una società più equa, di infrastrutture compiutamente digitalizzate e integrate grazie ai prodigi della quarta rivoluzione industriale. Tutto bene, dunque? Fino a un certo punto. Ma non vogliamo qui aprire un dibattito su eventuali trame nascoste sottese all’iniziativa dei promotori, e dei propugnatori, di questo “azzeramento” del mondo attuale. Facciamo pure finta che sia tutto trasparente, tutto alla luce del sole.

In fondo, a chi non è mai capitato di pensare che l’attuale modello socio-economico degli affari, della finanza, delle relazioni internazionali meriterebbe una bella rassettata? Chi non ha avuto almeno una volta sulla punta della lingua le memorabili parole del grande Gino Bartali: “Gli è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”? Forse, solo chi non ha letto gli ultimi report dell’Oxfam. Secondo i quali, grossomodo, l’un per cento della popolazione mondiale detiene tanto patrimonio quanto il novantanove per cento residuo.

Ben venga, alla buon’ora, un grande reset, si potrebbe dire. Finalmente un cambiamento “epocale”, una rivoluzione autentica, all’insegna della giustizia sociale e delle istanze popolari – non necessariamente “populiste” – di equità, solidarietà e ridistribuzione. Che problema c’è, direte? Per esempio che le rivoluzioni, di solito, le fanno le classi svantaggiate e le subiscono le classi dominanti. Perlomeno se stiamo a Marx, uno che di rivoluzioni se ne intendeva. E che magari ha sbagliato un sacco di previsioni, ma ci ha azzeccato, se non altro, nel prevedere l’avvento di un capitalismo ipertrofico e onnivoro. Un sistema in cui entità oligopolistiche sempre più concentrate, e potenti, avrebbero finito per divorarsi a vicenda. Non sembra, dopotutto, una polaroid così sfuocata della nostra era attuale.

E allora, se ragioniamo in una logica marxiana – diciamo pure da una prospettiva di lotta di classe, per usare una locuzione ormai obsoleta – dovremmo forse dare un’occhiata agli ideatori (e già che ci siamo anche ai piazzisti) del grande reset. Altrimenti detto: da chi prende il via la Rivoluzione “sociale”, oltre che verde e digitale, del XXI secolo?

Dal World Economic Forum, una fondazione con sede a Cologny, vicino a Ginevra, in Svizzera, sorta nel 1971 su impulso dell’economista ed accademico Klaus Schwab. Al suo tradizionale meeting invernale di Davos partecipavano originariamente – e sono tuttora gli ospiti più graditi – le teste d’uovo della crème de la crème del capitalismo globale. Per capirci, all’ultimo raduno (tenutosi dal 26 al 29 gennaio scorso) c’erano, tra gli altri, il numero uno di Volkswagen, Herbert Diess, il presidente e ceo di Goldman Sachs, David Solomon, e decine di altri plurimiliardari, leader di multinazionali e colossi bancari.

Ecco, questo è il parterre di menti “elevate” dal cui grembo è germogliato, e nel cui contesto ha attecchito, il meraviglioso piano del “grande reset”: azzerare questo balordissimo mondo fondato sulla disuguaglianza e sull’ingiustizia e rifarne da capo uno più accogliente, anzi – come amano dire lorsignori, tra una tartina al caviale e una coppa di champagne degustati da uno chalet con vista alpina – più “resiliente”.

Ora, chiedetevi: un progetto di “ri-creazione” più equa dell’intera società umana può credibilmente venire da coloro i quali appartengono, a pieno titolo, a quell’un per cento di privilegiati di cui parlano le statistiche Oxfam succitate? Un po’ come una Rivoluzione francese realizzata da clero e nobiltà, per così dire. Eppure, non pochi “progressisti” applaudono come una svolta straordinaria – per un mondo più smart, più partecipato e (dimenticavo) più verde – la lotta dura e senza paura contro tutte le povertà sponsorizzata dai miliardari di Davos.

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