Gli incentivi a non licenziare previsti dal governo Draghi nel decreto Sostegni bis tutelano solo il lavoro dipendente e non comprendono “disposizioni di ampio respiro in materia di politiche attive che permettano di limitare l’impatto della crisi attraverso l’investimento in competenze rinnovate per i lavoratori”. È il giudizio degli esperti della Fondazione studi consulenti del lavoro, che nell’ultima circolare analizzando le misure previste dal decreto in cui l’esecutivo ha inserito e poi tolto la proroga ad agosto del blocco dei licenziamenti per le aziende che nel mese di giugno chiedano la cassa Covid. Lo stop continuerà solo per chi dal primo luglio chiede la cassa integrazione ordinaria, che in compenso diventa gratuita. Ma il pacchetto messo a punto dal ministro del Lavoro Andrea Orlando comprende altri due strumenti che dovrebbero convincere le aziende ad assumere e scoraggiarle dal licenziare: il contratto di rioccupazione e il potenziamento del contratto di espansione. Due misure potenzialmente utili che però, secondo i consulenti, presentano più di un limite.

I limiti del contratto di rioccupazione – Il primo strumento, il contratto di rioccupazione, è definito come una nuova tipologia contrattuale per datori e lavoratori, pensata per cercare di favorire l’inserimento nel mercato occupazionale post-pandemia dei lavoratori disoccupati. Formalmente si tratta di un contratto subordinato a tempo indeterminato, finalizzato a incentivare, con uno sgravio contributivo del 100%, l’occupazione dei nuovi lavoratori. Ma si tratta di una misura non strutturale, destinata a scadere il 31 ottobre 2021. Partirà con sei mesi di formazione per il lavoratore all’interno dell’azienda, terminati i quali dipendente e datore possono scegliere se proseguire o meno il loro rapporto lavorativo. Nel caso in cui ci sia da parte di entrambi la volontà di procedere, il contratto prenderebbe avvio, dando diritto a tutti i lavoratori privati (escluso il settore agricolo e il lavoro domestico) all’esonero totale dal versamento dei contributi previdenziali, con l’esclusione dei premi e contributi Inail. Il tutto per un periodo massimo di sei mesi e con un tetto fissato a 6.000 euro su base annua.

Il rapporto della Fondazione evidenzia che, nell’ottica di disincentivare i licenziamenti, la condizione necessaria per usufruire del contratto è che il datore di lavoro non deve aver licenziato nei sei mesi precedenti all’assunzione. L’esonero dal pagamento dei contributi viene revocato nel momento in cui il datore di lavoro procede al licenziamento durante o dopo il periodo di inserimento, o nei sei mesi successivi all’assunzione se per giustificati motivi. Nel caso in cui sia il lavoratore stesso a presentare le sue dimissioni, il beneficio viene comunque riconosciuto per il periodo di effettiva durata del rapporto lavorativo.
Per i consulenti del lavoro lo strumento “denuncia dei limiti piuttosto evidenti, sia di merito che rispetto al contesto in cui interviene, che rischiano di comprometterne l’efficacia”. Innanzitutto i 6.000 euro annui corrispondono a “un esonero massimo di 500 euro mensili”. Poi il lavoratore che viene assunto deve essere ufficialmente disoccupato e aver dunque dato la propria immediata disponibilità a svolgere un’attività lavorativa e a partecipare alle misure di politica attiva del lavoro concordate con il Centro per l’Impiego. Questo non tiene conto del fatto che è attualmente ancora in vigore il blocco dei licenziamenti, per effetto del quale tanti lavoratori sono occupati solamente sulla carta: loro non potranno usufruire del contratto perché privi dei requisiti. Il terzo problema è dato dal fatto che la misura sarà utilizzabile solo fino al 31 ottobre, ma in quella stessa data finirà il blocco dei licenziamenti per il settore dei servizi. Inoltre, il rapporto definisce “incerti” i i canoni di adeguatezza del “Progetto Individuale di Inserimento” perché nel decreto Sostegni-bis non sono contenuti dettagli ulteriori se non la durata di sei mesi. In ultimo, il rapporto precisa che rimane ancora da chiarire la natura del licenziamento che causa la revoca dell’esonero.

Ampliato il contratto di espansione. Ma i prepensionati ci perdono – Il secondo strumento messo a disposizione dal decreto Sostegni bis è un ampliamento del Contratto di espansione introdotto nel 2019 dal decreto Crescita per le aziende con più di 1000 dipendenti e esteso lo scorso anno a quelle con oltre 250 dipendenti. Lo strumento prevede la concessione di cassa integrazione straordinaria e agevolazioni per l’esodo anticipato dei dipendenti più vicini alla pensione, a fronte di un piano di assunzioni di giovani anch’esse agevolate: un modo per favorire la staffetta generazionale. Il Sostegni bis consente l’accesso a questo contratto a tutte le imprese sopra i 100 dipendenti, stanziando più soldi per la cig.

Inoltre, precisa il rapporto, il decreto interviene anche sullo stanziamento di fondi per abbattere i costi dei licenziamenti per le imprese con più di 1000 lavoratori che attuino piani di ristrutturazione del proprio organico lavorativo usufruendo dei programmi europei. Queste aziende accedono a un beneficio per un valore pari alla NASpI maturata dai dipendenti esodati per un massimo pari a 36 mesi e non 24 (come nel caso delle imprese con almeno 100 lavoratori). In questo caso però dovranno impegnarsi ad assumere un lavoratore ogni 3 pensionati.

Il dubbio principale su questa misura riguarda la convenienza per i lavoratori che vengono avviati in questo modo alla pensione di vecchiaia: come ha spiegato Ezio Cigna, responsabile delle politiche previdenziali della Cgil, il prepensionamento comporta una forte perdita economica sia in termini di mancata maturazione del Tfr negli ultimi anni di carriera sia per il mancato versamento dei contributi previdenziali che alleggerisce l’assegno.

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