“Non credo assolutamente che volessero colpire l’Italia: gli italiani in Congo sono pochi, hanno interessi molto ridotti, non siamo noi che facciamo la voce grossa in quell’area”. Matteo Giusti, giornalista di Limes, è convinto che gli omicidi del nostro ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere della sua scorta Vittorio Iacovacci, entrambi uccisi insieme al loro autista Mustapha Milambo, non volessero prendere “di mira l’Italia”, ma colpire piuttosto “un personaggio di rilievo, come arma di ricatto o di pressione”. Di queste ipotesi e della ricostruzione di quanto avvenuto lo scorso 22 febbraio in Nord Kivu, Giusti parla nel suo libro “L’omicidio Attanasio. Morte di un ambasciatore” (Castelvecchi editore).

Perché la scelta di scrivere questo libro?
Mi occupo di Africa e seguo da tempo le vicende della Repubblica Democratica del Congo, perché sono profondamente convinto che dall’equilibrio di questo paese dipenda la pace e la stabilità di tutta l’Africa centrale. Dell’ambasciatore Attanasio avevo sentito parlare già prima della sua morte: mi parlavano di lui come di un diplomatico giovane, dinamico, molto attento al lavoro dei connazionali, ma anche agli aspetti umanitari. Quando è avvenuto l’attentato mi sono subito mosso per capire meglio i fatti, ma anche per ricostruire chi fosse il nostro ambasciatore a Kinshasa.

Chi era Attanasio?
Ho raccolto molte testimonianze. E non ho mai trovato prima tante persone, di ambienti e provenienze diverse, tutte concordi nel fare lo stesso ritratto di una persona accogliente, sorridente, con una consapevolezza “leggera” della sua istituzionalità: la persona ideale per tenere insieme la piccola comunità italiana in Congo – che è ciò che deve fare un ambasciatore –, ma anche per tanti congolesi che avevano trovato in lui un punto di riferimento. Avrebbe potuto diventare l’ambasciatore ideale: una persona così, fra dieci anni, a Mosca, o a Washington, Londra o Bruxelles poteva essere un uomo chiave, anche dal punto di vista politico. In più, lottava per i bambini di strada con l’ong Mama Sofia, aiutava ad assegnare borse di studio ai meritevoli. Tutte le testimonianze che ho raccolto restituiscono l’immagine di una persona luminosa, positiva e propositiva, che non perdeva mai di vista il suo ruolo. Era un punto di riferimento autorevole, aveva la una stoffa umana e diplomatico-politica eccezionale. In sintesi, un vero uomo di Stato.

Veniamo a quel 22 febbraio. Il libro – dopo aver raccontato l’intricato contesto congolese – ricostruisce i fatti, raccoglie note ufficiali, ma anche testimonianze esclusive e documenti: che idea si è fatto di ciò che è accaduto?
Partiamo dai fatti: quella strada colorata di giallo, secondo il World Food Programme delle Nazioni Unite, indica già una responsabilità. Una settimana prima, su quella strada era passato un diplomatico belga, insieme a lituani e irlandesi, e le Nazioni Unite avevano schierato mezzi blindati. La ricostruzione parla di sei persone con armi da fuoco e machete, che hanno cominciato a sparare all’impazzata. Per questo ho il sospetto che non si sia trattato di un tentativo di rapimento: nessuno spara alle persone che vuole rapire. E soprattutto, la gestione di un sequestro di un tale livello non è fattibile. I rapimenti sono all’ordine del giorno, nel Kivu, ma durano pochissimo: gli ostaggi vengono tenuti nella boscaglia fino alla consegna di un riscatto e poi vengono subito rilasciati. Rapire a scopo di estorsione un diplomatico di alto rango è impensabile.

Il presidente Félix Tshisekedi, pochi giorni fa, ha annunciato degli arresti, parlando di criminali comuni, dietro i quali ci sarebbe però una catena di comando a cui risalire.
Esattamente. Ma chi aveva un vero interesse a uccidere l’ambasciatore italiano? Che l’avesse il Rwanda, come affermano alcuni, a questo stadio non è dimostrabile né ci sono elementi concreti in tale direzione. L’altra ipotesi che porta agli interessi estrattivi dell’Eni nel parco dei Virunga è anch’essa debole. Innanzitutto il petrolio nei Virunga non è ancora quantificato, e parliamo anche di un parco protetto da vincoli stringenti e sarebbe complicatissimo avviare un’ipotetica estrazione. Quindi, o davvero si è trattato di un incidente, di gente che ha sparato senza rendersi conto chi stava uccidendo, oppure di una banda o gruppi che a tavolino hanno deciso di far sentire la propria voce uccidendo un diplomatico. Quindi non prendendo di mira l’Italia o Attanasio in quanto tale, ma un personaggio di rilievo, come arma di ricatto o di pressione. Non credo assolutamente che volessero colpire l’Italia: gli italiani in Congo sono pochi, hanno interessi molto ridotti, non siamo noi che facciamo la voce grossa in quell’area.

Ricordiamo le caratteristiche del luogo e il momento dell’agguato.
Le prime ricostruzioni non erano corrette: la zona dell’agguato è abitata, a 200 metri c’è un piccolo mercato, Rocco Leone e gli altri che si trovavano sulla seconda vettura si sono nascosti fra le case. Attanasio e Iacovacci non sono stati portati nella foresta, ma uccisi a poca distanza dalla strada. Le fonti dirette con cui ho parlato mi hanno confermato di aver visto alcune persone che si toglievano delle mimetiche e le buttavano, prima di scappare. Non erano però le divise dell’esercito congolese, impossibile capire a che gruppo appartenessero.

Ha avuto altri dettagli su questi arresti?
Ci ho provato, ma è impossibile, ora: dopo l’eruzione del vulcano Nyiragongo ci sono continue scosse di terremoto, la corrente salta continuamente, gli uffici sono chiusi, la gente è preoccupatissima e non si riescono ad avere dettagli. Fra l’altro, la lava ha interrotto proprio la Route National 2 all’altezza di Kibumba, vicino a 3 antennes. Va però detto che Tshisekedi ha fatto l’annuncio a margine di un importante incontro internazionale, a Parigi, ma era solo il resoconto delle operazioni di polizia svolte dopo i fatti, nel corso del tempo: non era l’annuncio di arresti appena avvenuti.

Si arriverà alla verità?
Difficile. Ma, come afferma Cécile Kyenge in una delle interviste del libro, è importantissimo provarci, per fare giustizia non solo per Attanasio, Iacovacci e Milambo, ma anche per i milioni di morti congolesi. Il loro sacrificio sia l’occasione per fare luce su questo massacro quotidiano, di cui l’Italia e l’Occidente non si curano.

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