Nei primi giorni in cui ho sentito parlare della fantomatica loggia Ungheria – alla quale apparterrebbero politici, magistrati, boiardi di Stato ed esponenti delle forze dell’ordine – ho cominciato a sognare che si aprisse finalmente un dibattito serio sulla inutilità della cosiddetta Legge Anselmi e sulla necessità di una sua riforma costituzionalmente orientata.

L’esistenza di una specie di nuova P2 non dovrebbe stupirci, se consideriamo che il Parlamento ha saputo rispondere allo scandalo del 1981 con una norma penale – a mio parere – blanda e pressoché inapplicabile. L’evidente inadeguatezza della Legge n. 17 del 25 gennaio 1982 – già nota negli anni Novanta alla Commissione parlamentare antimafia presieduta da Luciano Violante – ha indotto la Commissione antimafia della scorsa legislatura, quella guidata da Rosy Bindi, a chiedere a gran voce un mirato intervento normativo che rendesse reale il divieto contenuto a chiare lettere nell’art. 18, comma 2, della Costituzione (“Sono proibite le associazioni segrete” tout court).

Volendo soddisfare la curiosità del lettore senza annoiarlo, cerco di essere chiaro e sintetico. La legge penale, diversamente dal dettato costituzionale, sanziona oggi le sole associazioni segrete “sovversive”, con pene fino a un massimo di 5 anni. Per capirci, chi indaga oggi su una loggia nascosta ha quindi l’improbo onere di provare, senza la possibilità di intercettare conversazioni (non sono consentite per questo reato), che la società sia segreta e che “interferisca nei pubblici poteri”, elemento quest’ultimo del tutto evanescente e quindi non dimostrabile.

Eppure non dovrebbe sfuggire al legislatore la pericolosità del potere occulto, in contrasto con la stessa idea di democrazia che – come scrisse Norberto Bobbio – “è idealmente il governo del potere visibile, cioè il governo i cui atti si svolgono in pubblico, sotto il controllo della pubblica opinione”. Al cittadino perbene non farebbe piacere scoprire che determinate decisioni pubbliche siano state prese in segrete stanze e per interessi particulari o loschi, invece che nelle aule parlamentari e per interessi pubblici.

Sempre nei primi giorni in cui la stampa riportava la notizia della presunta associazione segreta, mi pregustavo anche il sapore di una riflessione sul Codice dell’ordinamento militare – sì proprio quello che vietava i sindacati con una regola incostituzionale – che richiede l’autorizzazione ministeriale per costituire un’associazione bocciofila ma non proibisce l’associazionismo segreto. L’art. 1475, infatti, restando ancorato alla nozione di associazione segreta della Legge n. 17/1982, vieta ai militari di commettere un reato (sic!). Nessuno si è finora interrogato sull’utilità di questa norma. Eppure il solo pensiero che un ufficiale – che ha solennemente giurato fedeltà alla Repubblica – appartenga a un circolo occulto che persegue interessi opachi dovrebbe suscitare ribrezzo.

Comunque, dopo aver fantasticato per due o tre giorni sulle possibili proposte di correzione di una normativa così inefficace, ho compreso che il livello del dibattito era molto più basso. Anzi, le indiscrezioni sulla loggia misteriosa venivano piuttosto strumentalizzate per sferrare l’ennesimo attacco alla magistratura (non certo agli eventuali magistrati scorretti o corrotti) e proporre maleodoranti riforme della giustizia. Da sempre esiste un partito trasversale che ha in uggia l’indipendenza della magistratura per motivi facilmente individuabili. Lo scopo è quello di sottomettere il potere giudiziario al potere politico: così avremo un processo penale che colpirà sempre meno la criminalità dei potenti.

Nel 2007, fu fatto un primo passo in questa direzione con la riforma che gerarchizzò le procure. Da allora, ha scritto Marco Travaglio in un recente editoriale, “i procuratori capi sono i sovrani dell’azione penale, con un potere smisurato che ha moltiplicato gli appetiti dei potentati: chi controlla un pugno di procuratori è il padrone di tutta la giustizia“. Ecco, allora torno a immaginare al contrario una riforma nel senso dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge: ristabiliamo l’autonomia dei singoli pm, rimettiamo in discussione il modello processuale del 1989 (con la sua fisiologica dispersione delle prove) e rendiamo effettivo il principio del segreto investigativo (con qualche ritocco normativo). Altrimenti rassegniamoci alla triste constatazione che “le leggi sono come le ragnatele che le mosche grosse sfondano, mentre le piccole ci restano impigliate”.

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