La sentenza della Corte d’appello di Firenze che nel 2015 ha assolto sei imputati accusati di uno stupro di gruppo avvenuto nella Fortezza da Basso nel 2008 utilizza “un linguaggio e argomenti che veicolano pregiudizi sul ruolo delle donne” e, in alcuni passaggi, “non rispetta la vita privata e l’integrità personale” della vittima. Per questo la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per la violazione dei diritti di una presunta vittima di stupro, accordando un risarcimento per danni morali di 12mila euro.

Ad appellarsi alla Corte di Strasburgo la stessa presunta vittima della violenza che nel 2016 aveva fatto ricorso non per l’assoluzione dei sei giovani, tutti tra i 20 e i 25 anni all’epoca dei fatti, ma proprio per il comportamento delle autorità nazionali che, secondo la ragazza, non avevano “tutelato il suo diritto al rispetto della vita privata e la sua integrità personale”. Il ricorso, inoltre, denunciava discriminazioni in base al sesso e pregiudizi sessisti durante il procedimento penale.

I giudici della Corte, che si sono espressi in maggioranza di sei contro uno, si legge nella decisione di Strasburgo, ritengono che i diritti della ragazza non siano stati “adeguatamente tutelati” nella sentenza della Corte d’Appello di Firenze. Violazione che invece non risulta negli atti precedenti, gli interrogatori della presunta vittima e il processo in Aula. Secondo Strasburgo il problema è proprio in alcuni passaggi delle quattro pagine di motivazione della sentenza in cui le autorità “hanno omesso di proteggere” la ragazza “dalla vittimizzazione secondaria”. Ingiustificati “i riferimenti fatti alla lingerie rossa ‘mostrata’ dalla ricorrente durante la serata” del presunto stupro, ma anche “le osservazioni riguardanti la bisessualità, le relazioni, il rapporto sessuale sentimentale e occasionale” della ragazza prima del fatto. Secondo i giudici, inoltre, i giudizi sulla scelta della vittima di denunciare la presunta violenza, che secondo la Corte d’Appello sarebbe scaturita “dalla volontà di ‘stigmatizzare'” un suo stesso “momento di fragilità e debolezza”, e il riferimento alla sua “vita non lineare”, sono da considerare “deplorevoli e irrilevanti”.

Insomma, quelli della sentenza sono osservazioni, linguaggi e argomenti che, sottolineano i giudici, “trasmettono pregiudizi sul ruolo della donna che esistono nella società italiana” rischiando quindi di “ostacolare una protezione efficace dei diritti delle vittime di violenza” nonostante un quadro legislativo “soddisfacente”. Secondo la Corte, infatti, l’azione penale e le sanzioni, in particolare, “svolgono un ruolo cruciale” sia nella “risposta istituzionale alla violenza” sia nella “lotta alla disuguaglianza” di genere”. Per questo proprio le autorità dovrebbero “evitare di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni dei tribunali”, ed evitare di esporre le donne alla “vittimizzazione secondaria” con “parole colpevoli e moralistiche” che rischiano di “scoraggiare la fiducia delle vittime nella giustizia”.

Da una parte quindi Strasburgo riconosce che “nel caso di specie la questione della credibilità” della ragazza “era particolarmente cruciale” e per questo era possibile “riferirsi alle sue relazioni passate” con gli imputati o “ad alcuni suoi comportamenti durante la serata” del presunto stupro. Dall’altra la Corte “non vede come la condizione familiare” della ragazza “i suoi rapporti sentimentali o orientamenti sessuali o le sue scelte di abbigliamento” così come “l’oggetto delle sue attività artistiche” possano essere rilevanti per la “credibilità dell’interessato”. Quindi, secondo Strasburgo, in questo caso, sulla libertà dei giudici di esprimersi e sull’indipendenza della magistratura doveva prevalere la protezione delle presunte vittime di violenza di genere, e cioè il dovere di “tutelarne l’immagine, la dignità e la privacy” compresa “la non diffusione di informazioni e dati personali estranei ai fatti”.

Nella sentenza di assoluzione della Corte d’Appello, che aveva ribaltato il primo grado, in sostanza, la vicenda veniva definita “incresciosa”, “non encomiabile per nessuno”, ma “penalmente non censurabile”. Secondo i giudici, il comportamento della ragazza, che nel 2008, all’epoca dei fatti, aveva 23 anni, faceva supporre che “anche se non sobria” fosse comunque “presenta a se stessa”. Il racconto della giovane, inoltre, nelle motivazioni della sentenza, veniva ritenuto ricco di “contraddizioni” e la versione quindi era considerata “vacillante” e smentita “clamorosamente” dai riscontri. All’epoca già l’avvocato della ragazza, Lisa Parrini, aveva denunciato che nella sentenza c’erano diversi “giudizi morali”. Come il passaggio sulla vita “non lineare” della ragazza, o la definizione della giovane: “Un soggetto fragile ma al tempo stesso creativo, disinibito, in grado di gestire la propria (bi)sessualità, di avere rapporti fisici occasionali di cui nel contempo non era convinta”

Un’accusa, quella mossa nel 2015 dalla legale della ragazza, che oggi è stata appoggiata anche dalla sentenza della Corte europea che nelle conclusioni scrive: “Pur riconoscendo che le autorità nazionali hanno garantito l’articolo 8 della Convenzione nelle indagini e negli interrogatori, la Corte ritiene che i diritti e gli interessi dello stesso articolo non sono stati adeguatamente tutelati nel contenuto della sentenza della Corte d’Appello di Firenze. Ne consegue che le autorità nazionali non hanno tutelato il ricorrente dalla vittimizzazione secondaria durante tutto il procedimento di cui la sentenza è parte integrante e di grande importanza, vista la sua natura pubblica”.

Il legale che ha seguito la ragazza durante il ricorso, l’avvocato Titti Carrano, si è detta “soddisfatta” della decisione della Corte europea che ha “riconosciuto che la dignità” della giovane “è stata calpestata dall’autorità giudiziaria”. “Purtroppo, questo non è l’unico caso in cui la non credibilità della donna si basa sulla vivisezione della sua vita personale, sessuale. Questo succede spesso nei tribunali civili e penali italiani“, aggiunge, sottolineando che il governo dovrebbe intervenire con una “formazione obbligatoria dei professionisti della giustizia per evitare che si riproducano stereotipi sessisti nelle sentenze”.

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