Siamo tornati alla teorie confindustriali degli anni 80 e 90 del secolo scorso, quelle sfociate nelle tre I berlusconiane, Internet, Inglese e Impresa: la scuola al servizio non già dello sviluppo sociale, economico e politico dell’intero paese, ma a quello degli imprenditori per i quali l’interesse pubblico coincideva, e coincide anche oggi, con il loro. L’espressione legislativa di questa idea fu la Riforma Moratti del 2003: a 14 anni scelta dell’indirizzo pressoché definitivo, alternanza scuola-lavoro e altri cambiamenti che gli studenti hanno potuto assaggiare all’entrata in vigore.

E’ la stessa cultura che ha affossato i Centri per l’Impiego, soppiantati dalle agenzie private di job placement, adeguatamente finanziate dallo Stato; poi la crescita abnorme del vasto mondo dei Caf di derivazione sindacale e padronale; poi ancora la resa della formazione professionale pubblica e della scuola tecnica alla logica del curriculum e del portfolio, dello sfruttamento dei giovani studenti in improbabili tirocini e in attività che finiscono per accreditare un’idea perversa del lavoro. La rinuncia da parte dello Stato a governare il sistema della formazione professionale, degli strumenti per creare lavoro e gestire i flussi di collocamento del personale, esseri umani declassati a “risorse umane”.

Tanto più la scuola prova seriamente a svolgere la sua funzione, quella indispensabile per la società, tanto più essa deve essere interconnessa col mondo del lavoro, con quello della cultura, dell’economia e con quello dell’innovazione. Trasformare questo assunto, fin banale nella sua evidenza, in un finto assioma per cui i corpi intermedi della società – in questo caso i datori di lavoro – decidono che piega debba prendere la sua organizzazione e i programmi di studio è un’aberrazione che il nostro paese sta pagando caro già da tempo.

Il mondo imprenditoriale italiano – il riferimento è ai suoi rappresentanti “politici”, quelli che interloquiscono coi governi e manovrano intere redazioni – è conservatore, egoista e incapace di concorrere all’innovazione, sennò il paese non sarebbe a questo punto. E’ abile ad approfittare della debolezza e della collateralità della politica per mungere la vacca oltre ogni limite, ottenendo denaro, favori e leggi. E’ evidente che niente di tutto questo è servito granché a modernizzare il paese, a generare lavoro e sviluppo. Ce lo insegna la storia degli ultimi 50 anni e la vicenda della Fiat, ora Stellantis, ne è il paradigma.

Ciò nonostante l’equazione più soldi all’impresa = più lavoro continua a essere la costante delle elaborazioni di larga parte del mondo dell’informazione, della politica e delle istituzioni. Non basta che l’evidenza smentisca queste teorie, lo stesso le ripropongono con la faccia tosta di chi sa che anche stavolta la sfangherà.

Lo sanno anche i muri che, se anche la scuola adeguasse i suoi programmi ai desideri confindustriali, nulla di buono verrebbe allo sviluppo economico del paese: la realtà produttiva cambia con una rapidità tale per cui le nozioni in possesso dello studente/forza lavoro sarebbero vecchi e inutilizzabili ancora prima che potesse mettere piede in una fabbrica o in un ufficio. Si continua a confondere l’addestramento, processo rapido di apprendimento di modalità di esecuzione di processi o di utilizzo di macchinari specifici (di solito lo fa la ditta), con la formazione (professionale) – acquisizione di competenze e di capacità tali da permettere al lavoratore il rapido addestramento e adattamento alle innovazioni tecnologiche – e poi ancora con l’educazione, l’esercizio di una compiuta cittadinanza attraverso l’assunzione di responsabilità sociali e culturali dell’individuo.

La confusione è funzionale, oltre che a perpetuare la mungitura delle risorse da parte dei soliti, anche a mantenere la scuola in stato di perpetua sudditanza, un poco per la scarsità di mezzi e strutture, un po’ per la disorganizzazione didattica e la qualità non sempre eccelsa delle prestazioni del personale, un po’ perché il suo prestigio sociale perde colpi da oramai troppo tempo perché non si comincino a vedere gli effetti concreti del disastro.

Il sistema scolastico italiano si basa in grande misura sulla scuola statale, gli inserti “privati” non riescono ad andare oltre le nicchie storicamente presenti delle scuole religiose e dei diplomifici. Tranne che nella formazione professionale tri-quadriennale: lì le agenzie, di derivazione padronale, sindacale e religioso, la fanno da padrone perché lo Stato ha delegato loro i percorsi formativi brevi, riservandosi l’istruzione tecnica quinquennale (Itis, Itc…) e quella superiore, gli Its post-diploma evocati da Draghi. Difficile dare conto dei finanziamenti, in parte regionali e in parte nazionali: una stima sommaria li colloca intorno all’8% del totale della spesa per l’Istruzione.

Adesso che sono in arrivo tanti bei soldini, eccoli di nuovo all’assalto: finanziare la ricerca di prodotto (lo Stato paga la ricerca, loro incassano i profitti) invece che quella di base, quella che produce innovazione e cultura scientifica diffusa, utile a tutto il mondo economico; smantellare le politiche di sostegno alla fasce più deboli, invece di renderle più efficaci, mischiando allegramente assistenza e lavoro come se fossero la stessa cosa. Formazione? Le industrie hanno tanto bisogno di manodopera formata, dateci i soldi che ci pensiamo noi! Così, i concorsi pubblici per i docenti sono ancora di là da venire e non si spicciano a farli, si inventano ogni giorno un modello di maturità diverso e disegnano una scuola “estiva” che dovrebbe compensare le chiusure invernali. Tutto, pur di non cambiare nulla.

Deve essere per questo che, dopo aver ottenuto leggi sempre più favorevoli e una scuola al loro servizio un certo numero di imprenditori, così beneficiati da Mamma Italia, le tasse vanno poi a pagarle in Olanda.

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